Per il parcheggio o per tutta la vita? Insomma, questa ira che acceca e fa alzare la mano assassina di un uomo su un altro uomo è per la lotta per il parcheggio o perché tutta la vita s’è trasformata in una lotta? Il fatto accaduto l’altra sera a Roma provoca uno sgomento enorme. Morire per un parcheggio? Ma è uno sgomento, se si può così dire, raddoppiato, moltiplicato per il fatto d’esser stata la violenza micidiale compiuta mentre la famiglia della vittima era in auto. E mentre lo era anche quella dell’assassino. Come se quei due uomini fossero usciti dalla loro vita, dalla loro intera vita, l’amore, i figli, gli affetti, le fatiche, per proiettarsi fuori come lottatori. Usciti fuori dalla scatoletta metallica delle auto che contengono, comprimendole, le intere vite, per lottare. Ma davvero per un parcheggio? O un’ira così cieca e idiota, così micidiale e disperante scaturisce non dal futile motivo ma da una trasformazione della vita in lotta perpetua, per il parcheggio, sì, ma anche per la strada, per l’auto, per fare quella famiglia benedetta e straziata, per il lavoro o per l’aria, forse, persino per respirare. Lo spettacolo estremo e definitivo di uccidere (e di morire) davanti agli occhi della propria famiglia per un futile motivo è scritta nella scena di quale più vasto copione, tessuto di rabbia e d’insofferenza? In quegli occhi increduli nell’abitacolo vediamo la vita stessa spalancare lo sguardo, non credere che possa andare così. In quegli occhi increduli nell’abitacolo vediamo, contemporaneamente all’orrore, un emblema della vita stessa che muta supplica che non sia vero, che non può finire così, che non si deve vivere e morire per questa rabbia. Nella scena della strada di Roma, in quegli occhi rimasti senza parcheggio e senza padre, senza marito, vediamo un simbolo che tutti ci riguarda. Se nei fatti che accadono non leggiamo i segni che ci riguardano, non ricaveremo nient’altro da tali fatti se non qualche indignazione o sgomento passeggero. Invece occorre guardare, guardare bene. Perché la scena di questo assassinio è simile ma anche diversa da molte, troppe altre. Perché la famiglia che in macchina fa da quinta, fa da fondale alla scena del sangue, aggiunge qualcosa di tremendo. Che ci fa ammutolire. Come se in quei pochi passi che separano l’auto dalla morte si sia perduto tutto. Non solo la lucidità di piantarla lì, che non ha senso litigare tanto per un parcheggio. Non solo la lucidità, ma anche la coscienza di essere in strada con altri, i primi altri che sono i tuoi cari, di essere non da soli come lupo tra i lupi, ma insieme, in una prima cellula del più generale organismo sociale. Questo prendersi a pugnalate, a spari, a brani, questo auto-divorarsi dell’organismo comune che siamo dinanzi agli occhi di quelli che formano la prima cellula della nostra vita, che non è nulla (diceva il poeta Eliot) se non è vita in comune, è un segno estremo. Da leggere senza riparare gli occhi dietro a facili e inutili analisi psicologiche. La teoria del 'raptus' è nel novantanove per cento dei casi un modo comodo per chiudere il problema. Per non guardare da quali oscuri serbatoi è ribollita e poi esplosa quella rabbia che colpisce alla cieca, senza vedere più nemmeno che alle spalle, a pochi passi, c’è una famiglia. La cui sola presenza avrebbe dovuto fermare quella mano. Avrebbe dovuto provocare una pronta moderazione. Un supplemento di pazienza, di attenzione. E invece no, la si è lasciata con gli occhi smarriti dietro i vetri a vedere l’assurdo della vita dominata dalla lotta per il possesso. Di un parcheggio, di un posto di lavoro, di un po’ di soldi, di onore o di qualcun altro tra tutti gli idoli, momentanei o più duraturi, che ci tolgono la luce dal cuore e dallo sguardo.