«Tutti gli uomini sono chiamati alla salvezza. È un invito a saper accogliere le legittime diversità umane, al seguito di Gesù venuto a riunire gli uomini di tutte le nazioni e di tutte le lingue. Cari genitori, possiate educare i vostri figli alla fratellanza universale». Meglio leggerle per intero e con occhi sgombri, le frasi pronunciate da Benedetto XVI nell’Angelus di domenica scorsa. Per scongiurare equivoci, riduzioni e arruolamenti – come accade pressoché invariabilmente – e metterne in chiaro il significato e la portata. Con poche e limpide parole (non a caso pronunciate in francese), il Papa ha mandato un segnale forte mentre infuria la querelle sui rimpatri nelle loro terre d’origine di cittadini europei di etnia rom decisi dal presidente della Repubblica francese Sarkozy. Non ha vergato ricette magiche, ma ha – per così dire – rimesso le cose in fila. Ribadendo con autorevolezza di padre e di maestro la posizione della Chiesa universale, che mette al centro delle sue preoccupazioni il bene inviolabile della persona. Un bene al quale nulla può essere anteposto, come insegna il sacrificio estremo di Cristo che sulla croce ha portato con sé i dolori dell’intera umanità, e in forza del quale i cristiani sono chiamati a lavorare con un’apertura del cuore e secondo motivazioni che vanno ben al di là di un generico e anonimo umanitarismo. Il richiamo alto di Benedetto XVI non può peraltro essere ridotto a uno dei tanti «pronunciamenti di principio» destinati a restare congelati e ininfluenti nel limbo delle buone intenzioni, ma si coniuga con l’azione che la Chiesa nelle sue articolazioni anche operative mette in atto da tempo, e che vuole coniugare accoglienza e legalità in una prospettiva di compatibilità. La Chiesa chiama a tenere insieme diritti e doveri nei confronti dei migranti e di quanti danno loro lavoro, e spiace che pure colleghi dallo sguardo acuto non l’abbiano visto. Ma i cattolici, e i loro pastori, non agiscono per farsi vedere, ma perché è necessario. Unire accoglienza e legalità è quantomai difficile eppure essenziale, specie in un’epoca di imponenti flussi migratori e di comprensibili diffidenze e insicurezze che interpella i governi e le società, alla faticosa ricerca di soluzioni che siano al tempo stesso realistiche, praticabili e rispettose del bene sommo, quello appunto della persona. Se viene a mancare questa preoccupazione fondamentale, le scorciatoie che si possono intraprendere – talvolta guardando più all’immediato tornaconto politico-elettorale che alla radicalità e organicità delle soluzioni proposte – rischiano di rivelarsi inefficaci, e di allontanare anziché avvicinare l’obiettivo finale, che rimane quello di una società coesa e capace di ospitare e costruire una "convivialità delle differenze". Una società nella quale ciascuna identità esprima la propria specificità e collabori al bene comune, nel rispetto rigoroso delle leggi che regolano la civile convivenza (tema, questo, sul quale non sono ammissibili deroghe) e in un potenziale, reciproco arricchimento. Una società – per usare una formula che fatica a farsi largo nel dibattito avvelenato di questi tempi, ma offre un’immagine eloquente sulla quale sarebbe utile lavorare – all’insegna dell’«identità arricchita».In questo senso, l’appello che Benedetto XVI ha rivolto ai genitori perché sappiano educare i figli alla fratellanza universale indica anche la strada da percorrere. L’emergenza educativa di cui da tempo si discute e che è certamente una delle sfide più vertiginose con le quali misurarsi, passa anche dalla capacità di considerare l’altro come parte di me, con cui condivido la medesima natura e il medesimo destino. Come un "tu" a cui guardare per poter dire "io" pienamente e con verità. Altrimenti non diventeremo capaci, noi e i nostri figli, di poter dire "noi".