martedì 23 febbraio 2010
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L’offensiva lanciata da 15mila soldati americani, afghani e inglesi nel Sud dell’Afghanistan (la più massiccia dal 2001) ha una serie evidente di obiettivi pratici da realizzare sul terreno: scompaginare i bastioni dei taleban e occupare la maggior quantità possibile di territorio; tagliare le vie di comunicazione e rifornimento tra le basi degli insorti e il Pakistan; sperimentare in una missione aspra e difficile l’esercito afghano, a partire dai 600 uomini dislocati a Marjah. È piuttosto evidente, però, che l’operazione ha anche un obiettivo meno diretto, ma non meno decisivo: mostrare agli afghani, e ancor più alle opinioni pubbliche dell’intero Occidente, che la coalizione internazionale non è impantanata, non ha perso l’iniziativa, non si è rassegnata a una crudele guerra di posizione che, nel lungo periodo, risulterebbe pagante solo per la guerriglia e per chi la finanzia. Non a caso il generale Petraeus, già protagonista in Iraq e oggi comandante di tutte le forze Usa di stanza all’estero, parla di operazioni destinate a durare anche un anno o più. Gli serve per trasmettere energia e convinzione a una coalizione internazionale in cui i segnali di sfaldamento non mancano: in Olanda il governo è addirittura caduto per aver cercato di prolungare il mandato del proprio contingente (2 ila soldati e 21 caduti finora), ma anche in altri Paesi (Germania, Gran Bretagna, persino l’Italia) non sono mancati gli scricchiolii. Proprio per questo, oltre che per l’evidente dimensione morale del problema, rischiano di avere un effetto pesantissimo i ripetuti 'incidenti' in cui innocenti civili afghani trovano la morte per mano delle truppe occidentali. Su questo tema occorre esser chiari: in un decennio di lotta alla guerriglia, prima in Afghanistan e poi in Iraq, i nostri eserciti non sono riusciti a trovare un sistema adeguato per evitare il sacrificio dei civili. L’ultimo episodio, con 27 morti tra i quali quattro donne e un bambino, è avvenuto nella provincia di Uruzgan dove (sarà solo un caso?) hanno a lungo operato i soldati olandesi che entro fine anno torneranno a casa. Le cifre mostrano che il problema non è occasionale, legato a questa o quella operazione: nel 2009, secondo le Nazioni Unite, sono morti in Afghanistan 2.412 civili, 600 dei quali uccisi da truppe Onu o locali. Un dato agghiacciante in assoluto, ma anche in proporzione. Abdur Rahman Saber, capo del consiglio cittadino di Marjah, ha detto che «i soldati stranieri non dovrebbero guardare ogni persona che vive qui con il sospetto che sia un taleban». Giusto, ma solo in teoria. Un soldato che voglia sopravvivere deve muoversi portando con sé proprio quel sospetto. È quel che ne fa che poi conta. Ancora ieri due episodi drammatici: un kamikaze ha fatto 15 morti nella provincia di Nangahar (Est) e un missile Nato ha ucciso quattro persone in quella di Kapisa (centro). La Nato dice che si trattava di terroristi, la gente del posto lo nega. Ma come distinguere i cittadini afghani dal kamikaze, che a sua volta altro non era, almeno all’apparenza, che un afghano come gli altri? Problema difficile, ma da risolvere assolutamente. I morti civili sono una piaga per la parte sana della popolazione, stroncano il morale degli occidentali, incrementano la propaganda dei terroristi. Colpire duro è necessario nell’offensiva, poi occorre insediarsi e distribuire in fretta lavoro, salari e ordine. Censire la gente, organizzarla. Intervento militare a pianificazione civile devono agire di concerto. È facile a dirsi, ma in Afghanistan non ci sono riusciti in molti.
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