Ora la riforma c’è. È il lavoro che è da reinventare e rilanciare. L’approvazione del
Jobs act ieri alla Camera, infatti, è ancora solo un punto di partenza. Anzitutto perché il canovaccio di cambiamenti promessi nella legge delega, dopo un breve secondo passaggio al Senato, va tradotto in norme effettive nei decreti delegati: compito quantomai delicato e decisivo. Ma più ancora perché le leggi da sole non bastano a mutare il verso di un mercato o addirittura il destino di un Paese se non innescano un cambiamento culturale. E, per come si è delineato finora, lo stesso progetto del governo appare solo parzialmente innovativo.Certo, sul piano politico il premier Renzi ha vinto la battaglia. Alla votazione finale i "sì" sono prevalsi senza dover ricorrere alla ghigliottina dei maxiemendamenti e della fiducia. L’opposizione è uscita dall’aula, di fatto dichiarando la propria impotenza (e incoerenza per quanto riguarda Forza Italia). Il dissenso della minoranza Pd è stato significativo (2 no, 2 astenuti in aula e 33 deputati che non hanno partecipato alla votazione) ma limitato se si considera che il partito ha ben 307 rappresentanti alla Camera. Resta poi aperto lo scontro sul piano sociale, con uno sciopero generale già indetto per il 12 dicembre. Un lungo braccio di ferro innescato da ambo le parti e che in realtà tanto il premier Renzi quanto la Cgil e la Fiom hanno interesse ad alimentare ancora per ragioni speculari: l’uno mostrare di saper imporre riforme superando impacci politici e condizionamenti sindacali; le altre ritrovare un ruolo da protagoniste, aggregando nelle piazze le forze d’opposizione. Questo doppio scontro, all’interno del Pd e tra governo e un bel pezzo di mondo sindacale, ha finito per schiacciare il dibattito solo sulle modifiche all’articolo 18, mettendo in secondo piano sia quanto di positivo il
Jobs act contiene, sia quanto in realtà è deficitario e che occorrerebbe "rafforzare" con i decreti delegati. La fine di certe rigidità in materia di licenziamenti, infatti, può rendere più fluido il mercato del lavoro, favorire le assunzioni a tempo indeterminato e dare più tranquillità alle imprese. Ma accanto è fondamentale un reale sviluppo delle politiche attive per far ritrovare un lavoro a chi lo perde (e il mezzo fallimento di Garanzia giovani la dice lunga su quanto siamo indietro in questo campo). Altrettanto decisiva è l’introduzione, promessa nel
Jobs act, del "Codice semplificato del lavoro" che riassuma in qualche decina di pagine di facile comprensione (e traduzione in inglese, lingua degli investitori internazionali) l’immensa mole di norme e codicilli che oggi soffocano più che sostenere il diritto del lavoro. E ancora: bene la riforma degli ammortizzatori sociali e l’allargamento di alcune tutele a cominciare da quelle per la maternità. Ma è necessario da un lato sciogliere le ambiguità rispetto ai parasubordinati: i contratti a progetto restano o vengono cancellati? Come si evita che questi lavoratori finiscano tra i disoccupati o tra le finte partite Iva? E dall’altro lato, soprattutto, decidere una buona volta quali e quanti supporti possiamo dare ai nuovi lavoratori "intraprendenti": professionisti, freelance, consulenti. O quantomeno come si può evitare di gravarli di pesi eccessivi come invece avviene oggi per fisco, previdenza e burocrazia. Infine, portare a compimento i progetti per favorire l’occupazione femminile e la conciliazione tra impegni di lavoro e di cura familiare, senza però che ciò significhi imporre modelli e scelte di vita o si traduca nell’ennesima sottrazione di risorse per le famiglie. Almeno altri due temi, ignorati nella legge delega, sarebbe utile affrontare: come favorire la contrattazione aziendale (e quindi gli aumenti legati alla produttività) e come incentivare la partecipazione dei lavoratori all’impresa, questa sì una vera svolta per il nostro sistema economico.Lo scontro politico e sociale sui licenziamenti – una sorta di "maledizione ricorrente" per il nostro Paese – ha nascosto il vero dibattito che era necessario sviluppare e fornito alibi in maniera diversa a tutti i protagonisti: governo, opposizioni, sindacati e imprese. Con il rischio di far ripiegare anche questa riforma all’indietro verso il Novecento, il fordismo, come se tutto ancora ruotasse intorno al binomio posto fisso contro flessibilità. Anziché analizzare i nuovi paradigmi del lavoro fra globalizzazione e rivoluzione tecnologica, tra polarizzazione delle professioni e robot che sostituiscono gli operai. La stesura dei decreti è urgente. Ma non è ancora troppo tardi per progettare quel «futuro che è solo all’inizio». Magari insieme. O almeno ascoltandosi.