mercoledì 14 ottobre 2009
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L’ombra di Tangentopoli e di Mani Pulite si stende ancora sino a noi. A ben vedere, infatti, tutta la complessa vicenda che in questi giorni, tra lodo Alfano e sentenza della Corte Costituzionale, ha portato al calor bianco il dibattito politico e giuridico, è in qualche modo figlia di quella ormai lontana stagione.Non voglio entrare nel merito della specifica vicenda attuale. Mi preme invece rilevare come essa, in parte almeno, vada ricollegata alla legge costituzionale n. 1 del 1993 che modificò l’articolo 68 della Costituzione, abrogando l’istituto della autorizzazione a procedere penalmente nei confronti dei membri del Parlamento, che tale articolo originariamente contemplava. Si tratta di una particolare immunità, contenuta in numerose Carte costituzionali, che ha avuto nella storia del nostro Paese una vita travagliata: prevista dallo Statuto albertino del 1848, fu travolta dal fascismo per intuibili motivi di controllo delle opposizioni. Essa venne di nuovo restaurata con l’avvento della Repubblica, per scomparire poi nel 1993, nell’arroventato clima che segnò l’ultimo decennio del secolo scorso.Le ragioni della abrogazione dell’istituto vanno ricercate, come spesso accade, in un abuso che progressivamente se ne fece. Se nei primi anni della vita della Repubblica esso, utilizzato con grande equilibrio, garantì i parlamentari da iniziative giudiziarie prevalentemente riconducibili a fattispecie di dissenso politico e di contestazione ideologica, successivamente i casi di diniego delle autorizzazioni a procedere da parte delle Camere aumentarono via via, anche in rapporto a fattispecie penali che poco o nulla avevano a che vedere con l’attività politica dei parlamentari. In particolare il fenomeno raggiunse il suo culmine agli inizi degli anni Novanta, per la verità anche a causa degli eccessi di spirito giustizialista da parte di alcuni ambienti della magistratura, che venne poi smascherato da numerose assoluzioni di uomini politici chiamati a giudizio.I dibattiti di questi giorni sulle immunità delle più alte cariche dello Stato ripropongono, in qualche modo, anche il tema dell’autorizzazione a procedere. L’opinione di molti è che questo istituto violerebbe il principio dell’eguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge; principio che non a caso la Corte Costituzionale ha evocato nella sua recentissima decisione. È tuttavia da domandarsi se sono del tutto parificabili la posizione del privato cittadino con quella del cittadino investito di altissime funzioni pubbliche. Il principio di eguaglianza postula, di per sé, trattamento eguale per situazioni eguali, ma anche trattamento diverso per situazioni diverse. E soprattutto occorre ricordare che l’istituto dell’autorizzazione a procedere va a costituire una delle immunità parlamentari tipiche delle democrazie, dirette a garantire al potere legislativo un esercizio delle sue funzioni libero da condizionamenti: sia del potere esecutivo che di quello giudiziario.A fronte di questa esigenza primaria in uno Stato democratico, fondato sulla divisione dei poteri, è da domandarsi se non sia il caso di tornare alla Costituzione, nella sua formulazione originaria. Anche se, occorre dirlo, insieme a un necessario rinnovamento dell’etica pubblica di quanti operano in politica.
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