I tamburi di guerra stanno nuovamente tuonando in Sudan.Permangono le tensioni attorno alla regione petrolifera di Abyei, che rappresenta, dal punto di vista geostrategico la linea di faglia tra Nord e Sud Sudan. A seguito della firma del 'Comprehensive peace agreement' (Cpa), Abyei era stata affidata a un’amministrazione fiduciaria sotto l’egida di una speciale commissione Onu, in attesa di una definitiva demarcazione dei confini e di un nuovo quesito referendario sulla sorte del territorio. Consultazione prevista contestualmente a quella per l’autodeterminazione del Sud, sancita con il voto popolare in gennaio. Ma la richiesta avanzata da Khartoum di far votare, oltre che i nilotici sudsudanesi Dinka ngok, anche i pastori nomadi Misserya, fedeli al governo nordista, ha determinato il rinvio
sine die del referendum su Abyei.Stiamo parlando di una regione che galleggia letteralmente sull’oro nero.Basti pensare ai pozzi di Heglig e Bamboo, nei pressi di Abyei, che, assieme agli altri giacimenti presenti nelle regioni meridionali, fanno gola alle compagnie petrolifere di mezzo mondo. Il braccio di ferro è tra il regime sudanese che, accettando l’indipendenza delle regioni meridionali, ha perso oltre la metà delle risorse petrolifere nazionali, e la nascente repubblica sud-sudanese, appoggiata dagli Stati Uniti. I quali hanno estremo bisogno dei giacimenti di cui sopra per tenere testa alla concorrenza sfrenata di Pechino, che ormai ha colonizzato l’intero continente africano.La posta in gioco è alta e non ha solo a che fare con l’affermazione di identità etniche o religiose: in palio c’è soprattutto il controllo delle fonti energetiche che rappresentano, paradossalmente, per le popolazioni locali un’autentica sventura. Intanto si susseguono le dichiarazioni delle principali cancellerie che vorrebbero scongiurare un ennesimo bagno di sangue. È il caso del presidente sudafricano Jacob Zuma che si è detto «profondamente preoccupato» dell’escalation di violenze, definendo «imperativa» la necessità che i due Stati sudanesi discutano delle questioni ancora in sospeso, per una «cordiale e serena coesistenza» dopo la data del 9 luglio in cui verrà ufficializzata l’indipendenza delle regioni meridionali. Addirittura c’è chi come il presidente ugandese Yoweri Museveni vorrebbe un faccia a faccia tra il presidente Omar Hassan el Beshir, e quello sudsudanese Salva Kiir Mayardit. Stessa cosa sta facendo la Commissione dell’Unione Africana che, da quando ha perso il sostegno finanziario della Libia, rischia la bancarotta.Oltre all’oro nero, c’è in ballo anche l’oro blu, quello che scorre nel Nilo.Infatti la secessione delle regioni meridionali ha indebolito fortemente l’ asse Cairo-Khartoum, principali beneficiari dell’immensa portata del grande fiume, in una regione alle prese con frequenti carestie. In forza di due trattati siglati nel 1929 (Egitto-Gran Bretagna) e nel 1959 (Egitto-Sudan), i due governi si spartiscono il 90 per cento della ricchezza idrica. Uno
status quodi assoluto privilegio che gli altri Paesi del bacino nilotico rifiutano considerandolo iniquo e anacronistico.Di fronte a questo scenario infuocato, la comunità internazionale non può certamente stare alla finestra a guardare, non foss’altro perché una guerra dell’acqua non farebbe che acuire le tensioni nel Corno d’Africa già afflitto dalle ormai croniche crisi del Darfur e della Somalia e dalla guerra fredda tra Etiopia ed Eritrea. In particolare sarebbe auspicabile che l’Unione Europea e gli Stati Uniti rispolverassero l’arma della diplomazia, che qualcuno considera un arnese vecchio e obsoleto ma che quasi sempre produce effetti migliori rispetto ad altri mezzi più energici e sbrigativi (ad esempio le "bombe intelligenti") a torto ritenuti più efficaci.