In Iran essere un riformista non necessariamente significa sempre essere un riformatore. Mohamad Khatami o Hassan Rohani erano stati presentati come tali, ma non hanno certo brillato per essersi battuti per riformare il regime. Hanno superato il record mondiale di esecuzioni e le repressioni delle minoranze non sono certo finite sotto il loro regno.
Perché la continuità arriva da sempre da sopra di loro, dal grande ayatollah, insomma da Ali Khamenei.
Una figura, quella della Guida suprema, ridisegnata il secolo scorso da Khomeini e dalla sua Rivoluzione per garantire quello che neanche la pietra di Persepoli mostra di poter conservare nel Paese di Dario: il regime. Così Massud Pezeshkian è dovuto passare attraverso le maglie strette dei Guardiani della Rivoluzione per candidarsi, unico tra i primi sei e poi quattro candidati rimasti in corsa al primo turno e graditi al potere. Per questo in molti, soprattutto su indicazione dei leader dell’opposizione fuoriusciti, non lo hanno mai considerato un “riformista” vero, nonostante metà del suo sangue sia azero e per l’altra metà curdo. Due minoranze invise agli ayatollah, perseguitate e mai libere di esprimere la propria anima. Non è bastato che si esprimesse (con i modi e i tempi da uno dentro il regime, naturalmente) a favore dei giovani e delle giovani che urlavano la loro rabbia per la morte di Mahsa Amini. A nulla è valso invocare maggiore dialogo con l’esterno e più flessibilità nelle trattative sul nucleare. Pur sapendo che la politica estera e tutto ciò che ne consegue passano da sempre non dalle mani di un presidente ma da quelle dell’uomo di Mashhad che anche ieri ha esortato a recarsi alle urne, perché sapeva già come sarebbe andata a finire: la vittoria di Pezeshkian e la convivenza forzata con un personaggio sì “vidimato” dai Guardiani, mea pur sempre detentore di poteri certo simbolici ma rilevanti.
Primo fra tutti la possibilità di farsi conoscere dall’Occidente. E questo da un lato giocherà a suo favore: sarà la faccia spendibile del regime. Sarà la figura alla quale rivolgersi. Soprattutto per chi ieri sera si è meravigliato che i basij lasciassero fare in piazza, non si opponessero ai cortei di auto nelle vie inquinate di Teheran. A lui chiedono tanto le persone che gli hanno fatto staccare di tre milioni di voti l’uomo omologo al regime: l’ex mediatore sul nucleare e integerrimo conservatore Said Jalili.
Gli chiedono clemenza per le centinaia di ragazzi che restano in carcere per aver gridato "Donna vita libertà", gli chiedono di frenare (nel limite dei suo poteri) il pugno di ferro del boia che continua a difendere il potere con un cappio al collo dei condannati, di ricordare a chi gli sta sotto le sue origini di uomo delle minoranze. Non sarà facile tentare le riforme, cambiare decenni di sottomissioni totali, visto anche i suoi predecessori. Ma la speranza di chi lo ha portato in spalla fino alla fine della corsa elettorale è in fondo solo una: che almeno ci provi.