Ricorderemo questa Pasqua come linea di confine tra un prima e un dopo. Chi, come me, ha avuto modo di aggirarsi, nelle ore successive alla tragedia, in quella città fantasma, fra moncherini di basiliche e scorci anatomici di palazzi storici sventrati, si rende conto che un’intera comunità, orgogliosa delle sue sedi universitarie, teatro, concerti, conventi, caserme… è stata azzerata in pochi secondi. Girando per il centro dell’Aquila, ho rivisto, con gli occhi della mente, la gente che, fino a qualche ora prima, lo riempiva. Ho riudito il vociare del mercato di Piazza Duomo, degli studenti nei portici e nei locali, quello dei ragazzi all’uscita dalla scuola. Volti fiduciosi di bambini, svaniti dentro piccole bare bianche. Ho incontrato, per il corso, l’intero popolo di coloro che sono scomparsi. Quanti giovani. Ma una città come questa o viene ricostruita com’era o tanto vale cambiarle nome. Il sisma, in passato, l’ha distrutta altre volte ed è riuscita a risorgere uguale e migliore, benché con immensi sforzi. Accadrà anche questa volta? Voglio crederlo. Ogni città possiede una sua atmosfera originale. E, quando essa svanisce, non scompaiono solo gli edifici, ma un certo clima spirituale, un’«anima» modellatasi nel tempo, un particolare modo di vedere le cose. Solo una forte tenacia, unita a senso d’identità, potrà ridare vita a questa civiltà, severa e raffinata, schiva e umana, simboleggiata dalle chiese quadrangolari che si stagliano, con i loro rosoni, sul verde cupo del monte. Per adesso, perdura l’incubo. Il boato incredibile di quella notte, le stanze che ballano. E tanti piccoli centri, non solo aquilani (penso a Castelli, cittadella della ceramica, a Pietracamela, borgo fiabesco, incastonato fra le rocce, sotto il Gran Sasso, nel versante teramano). In questi centri la gente non tornerà senza un fattivo aiuto. Rischiamo di perdere non solo una città capoluogo, unica nel suo genere, ma intere dimensioni della civiltà abruzzese.