Un ritiro di sacerdoti in un paesino della profonda campagna francese, Ars. Noto al mondo solo per un povero curato che vi fu mandato agli inizi dell’Ottocento, quando le anime in quel villaggio erano 230. Non sono molte di più, adesso. Ars è un grappolo di case strette attorno a un campanile e alla memoria di san JeanMarie Vianney. Dunque, in questo paese mille sacerdoti venuti da tutto il mondo hanno ascoltato gli esercizi spirituali predicati nell’anno sacerdotale dal cardinale Christoph Schönborn, arcivescovo di Vienna. Per sette giorni, nella pace bucolica dell’Ain. Eppure, di ciò che è stato predicato a quella schiera di preti neri, bianchi, asiatici, qualcosa ti resta in mente tenacemente; come se poi le parole dette in quella quiete di convento dicessero molto di ciò che è vero sul mondo in cui viviamo. Schönborn ha esortato con forza quei mille a essere «testimoni di misericordia». Come la prima vera missione, come il senso primo di quell’abito che portano. Non predicatori, né «buoni esempi», né prima di tutto benefattori o filantropi. Ma testimoni di misericordia. «Solo alla luce della misericordia di Dio – ha detto il cardinale – possiamo guardare in faccia la nostra miseria. Se non c’è una percezione della misericordia di Dio, gli uomini non sopportano la verità. In un mondo senza misericordia tutti tendono ad autogiustificarsi, e ad accusare gli altri. E quando ci si accorge della nostra miseria, siamo tentati dallo scoraggiamento e dalla disperazione ». Misericordia, l’immenso amore di Dio, quell’«amore con viscere materne» che tutto sa e tutto perdona. Infinitamente più grande che la giustizia degli uomini: la giustizia secondo Dio, la giustizia che fa rinascere. Misericordia divina, che presuppone uomini che la domandino; che non ritengano di essere autosufficienti, e di non averne dunque alcun bisogno, giacché sono adulti, e non più “figli” di alcun padre. Ci siamo scoperti a sussultare, alle parole di Schönborn, come quando qualcuno, non conoscendoci, ci dica qualcosa di vero di noi. Di noi in Italia, almeno. L’orizzonte di una misericordia perduta. Una ampia smemoratezza di quella eredità cristiana in cui ci si sa capaci di male, e dunque peccatori; ma altrettanto si sa che nessun male è così grande, che Dio non lo possa perdonare. In questa luce si può guardarsi in faccia, così come siamo; si può, come è stato detto ad Ars, «guardare in faccia la nostra miseria». Si può sopportare la verità: su di noi e sugli altri. Invece, «in un mondo senza misericordia tutti tendono ad autogiustificarsi e ad accusare». Non c’è l’eco di questo smarrimento nella rabbia delle invettive e controaccuse che percorre ormai cronicamente giornali e tv, come se il resto del-l’Italia reale, il lavoro, i nostri figli, non esistesse? Un ostinato autogiustificarsi, un farisaico dirsi sempre innocenti, un puntare il dito costantemente verso l’altro. Come in un vicolo cieco. Perché per ladri, impostori, bugiardi quale speranza c’è, se tutto ormai è indelebilmente fatto; se non c’è alcuna coscienza che capaci di male siamo tutti, e per tutti c’è un orizzonte di misericordia? Insistono coloro che si giudicano “onesti”, e magari disonestamente accusano; e forse sono loro i peggiori, quei farisei che sanno tutto di ognuno, ma hanno scordato la propria miseria. Qualcuno, molti, restano a guardare: né inquisitori né accusati né autoassolti, si chiedono con ansia dove andrà, un Paese avvolto in questo turbine rabbioso. Si chiedono che cosa è cambiato, e quale patto di fondo si è incrinato: perché ricordano un’Italia sì divisa, partigiana, battagliera, ma nel fondo più civile e umana. Come se fossimo caduti dentro a un altro orizzonte. Come se mancasse qualcosa. Qualcuno, forse; con cui non puoi vantarti di essere senza peccato; qualcuno a cui, alla fine, devi anche tu chiedere perdono.