Suona come il trillo della sveglia il dato sul prodotto interno lordo dell’ultimo trimestre 2009. Calato dello 0,2% – mentre era previsto in crescita dello 0,1% – il Pil segnala che la ripresa economica non è scontata e non assisteremo a una risalita progressiva e certa. Non ci sarà, come forse ci si era illusi, un effetto trascinamento dall’estero, capace di portarci fuori dalle secche a riprendere il largo dei commerci globali. Si riaccenderà, piuttosto, la battaglia per riconquistare le posizioni che avevamo nel mondo e tornare a far lievitare i consumi interni, fiaccati dalla contrazione dei redditi familiari.Se questo è lo scenario economico che ci si apre innanzi all’avvio del 2010 – con una crescita acquisita pari a zero – occorre cominciare a porsi qualche domanda su quale politica economica si possa mettere in campo per non restare fermi ai blocchi di partenza mentre gli altri Paesi europei riavviano la corsa. Sia chiaro: le ultime due manovre economiche, pur criticabili per la scarsa attenzione che hanno riservato ad alcuni temi sociali come il sostegno alle famiglie e ai lavoratori precari, hanno centrato l’obiettivo di mantenere in ordine i conti pubblici. Tanto che oggi il ministro Tremonti può affrontare a testa alta, e senza dover stendere la mano, un Consiglio europeo al quale invece la Grecia si è presentata sull’orlo del fallimento, la Spagna porta la sofferenza di una disoccupazione al 20%, l’Irlanda e il Portogallo vengono osservati con sospetto. Siamo fuori da quel club dei
Pigs ("maiali" in inglese, in realtà l’impietoso acronimo delle nazioni del Mediterraneo più l’Irlanda) in cui abbiamo "militato" a lungo. Anche sul piano dell’occupazione, nonostante le forti sofferenze di precari e giovani a termine, le perdite sono state contenute grazie al massiccio ricorso alla cassa integrazione. Con sacrifici "spalmati" sulle diverse voci di spesa, il contenimento degli investimenti e fondi aggiuntivi riservati solo agli ammortizzatori sociali, insomma, si è superato d’un balzo il 2008 e si è sopravvissuti anche al terribile 2009 appena concluso. Il tutto senza inasprire le imposte. Che non è poco.Ora, però, la scelta di "congelare" la situazione economica – sulla base dell’idea che una volta passata la bufera, il corpo produttivo ibernato potesse risvegliarsi ai tepori della ripresa e rifiorire da solo – inizia a rivelarsi sorpassata e fragile. Il dato del Pil – e in particolare l’inaspettato crollo a dicembre della produzione industriale – ci dice che questa strategia non basta più e bisognerebbe stimolare la crescita in qualche modo. La Germania punta sulla riduzione delle tasse, la Francia su un piano innovazione, gli Usa sulla tecnologia. E noi? L’incertezza regna sovrana. Di privatizzazioni e liberalizzazioni non si parla più da anni, passate di moda, semmai si discetta di colbertismo e intervento pubblico. Sulla leva fiscale si sostiene tutto e il suo contrario: un giorno si annuncia la cancellazione dell’Irap e il successivo si spiega che è impossibile a meno di massacrare la sanità. Si rispolverano le due aliquote e poi si replica che no, si farà una "grande riforma", ma non prima di tre anni. Per tacere del sostegno alle famiglie, per le quali si continua ad alzare l’asticella dell’obiettivo («faremo qualcosa meglio del quoziente») senza mai avviare la rincorsa per saltare. Stesso copione per il lavoro, gli ammortizzatori, i giovani e ora di nuovo le pensioni: si annunciano riforme che poi vengono regolarmente posticipate a un’ormai mitica "fine legislatura".Per arrivare in salute al 2013, però, occorrono degli stimoli ora, un’idea del futuro di questo Paese sulla quale puntare energie e qualche soldo. Un progetto per il quale valga la pena mobilitarsi e che oggi non si riesce ancora a rintracciare nelle politiche di governo.