Non è certo una sorpresa, ma inquieta ancor di più. L’Italia è tra i Paesi che investono meno risorse per la tutela della maternità e per la famiglia. Appena l’1,4 per cento del prodotto interno lordo nel 2009, certifica il ministero dell’Economia nella sua relazione sulla situazione economica del Paese.È un dato assai distante non solo dalle punte avanzate del 3,7% della Danimarca o del 3% della Svezia, ma perfino dalla media europea del 2,1%. Per capire meglio la dimensione del rapporto, da noi si spende a favore della famiglia la metà di quanto non avvenga in Francia o in Germania. E non in valore assoluto, ma in proporzione alla ricchezza prodotta in ciascun Paese. Da sole queste poche cifre che confermano un deficit storico, questo breve confronto internazionale che parla di un’Italia agli ultimi posti del Continente assieme a Spagna e Portogallo, dovrebbero bastare per rendersi conto che qualcosa non funziona, che esiste un problema oggettivo da affrontare. In maniera strutturale, in via prioritaria, perché gli interventi assunti negli ultimi anni sono stati troppo limitati.Il nostro, lo sappiamo, non è un Paese per giovani. Ma soprattutto non è più da tempo un Paese per madri. E dunque, drammaticamente, non è più un Paese per figli.Potremmo analizzare a lungo il livello dei servizi offerti alla maternità nelle nazioni scandinave, raffrontare i sistemi fiscali che, appena al di là delle Alpi, premiano la famiglia, o fare il computo delle provvidenze, dei consistenti trasferimenti diretti previsti ad esempio in Germania. Ma anche senza mettere il naso altrove, guardando solo in casa nostra, è ben visibile il deserto nel quale sono state abbandonate la famiglia e la promozione della maternità. Quel che resiste, resiste per una cultura diffusa e purtroppo sempre più insidiata da martellanti campagne disgregatrici. Prima ancora che per colmare la distanza con le altre nazioni europee, la sfida è tutta interna: fermare il nostro declino, invertire slogan deleteri e una tendenza alla denatalità che fa nascere in Italia appena 1,3 bambini per donna contro i 2,1 necessari ad assicurare il ricambio naturale. E ancora, fermare il progressivo impoverimento dei nuclei familiari con figli, rimuovere quegli ostacoli materiali che frenano le giovani coppie dal procreare, che condizionano di fatto la scelta di mettere al mondo quanti figli si desiderano. Il gap è anzitutto con noi stessi, non siamo adeguati alle nostre necessità più profonde.Negli ultimi mesi abbiamo resistito - anche meglio di altri - alla crisi internazionale: il governo ha tenuto bene i conti pubblici, il ministro Tremonti ha stretto i cordoni della borsa e il Paese i denti. Ma non ci si può trincerare all’infinito dietro la mancanza di fondi, l’impossibilità di aumentare il deficit. Perché quello che si chiede non è l’esplodere della spesa pubblica, ma la scelta chiara - come da programma elettorale, tra l’altro - di un investimento. Sul Paese, sulla famiglia come motore di sviluppo.Se davvero si vuol trovare un senso alla forte turbolenza politica alla quale abbiamo assistito quest’estate - e che un gran senso non l’ha certo avuto per i normali cittadini italiani - la verifica sul programma è un’occasione che non si può perdere. Per rimettere ordine nelle priorità - la famiglia e il fisco ben prima del processo breve - per risintonizzarsi con un Paese che attende da troppi anni risposte strutturali a bisogni divenuti ancora più urgenti con il deteriorarsi della situazione economica. Non è più il tempo di collocare la riforma del fisco in un generico orizzonte di fine legislatura. È necessario discuterne e lavorarci qui e ora. Da settembre. Per poter approvare almeno un primo modulo di interventi verso il quoziente familiare con la prossima manovra finanziaria.In fretta e furia, quest’anno, si sono trovati 24 miliardi di euro. Mettendo da parte timidezze, prudenze a fasi alterne, non è impossibile recuperarne 3-4 per finanziare la svolta che le famiglie attendono.