venerdì 24 aprile 2009
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I segnali che giungono dall’Iraq sono oltremodo contrastanti. Ma non poteva del resto essere altrimenti: troppo profonde le cicatrici di questi anni di violenza devastante, di odio settario, di anarchia e insicurezza generali. Sperare che il Paese fosse ormai pienamente pacificato era illusorio. Dunque, non devono purtroppo sorprendere le nuove azioni che in questo mese hanno insanguinato come non accadeva da tempo le strade irachene, con una serie di violenti attentati, diretti soprattutto contro i pellegrini sciiti. Anche ieri esplosioni in diverse città hanno causato decine di morti, fra cui molti iraniani. Nello stesso giorno, è arrivata la notizia della cattura di Abu Omar al­ Baghdadi, il misterioso capo di al­-Qaeda in Iraq. Un personaggio sfuggente, al punto che vari analisti erano scettici sulla sua esistenza: al-Baghdadi non sarebbe stato che un’invenzione dopo l’uccisione nel 2006 del creatore della rete qaedista nel Paese, Abu Musab al-Zarqawi. Se l’annuncio dato dal governo verrà confermato – il suo arresto è stato infatti più volte annunciato e smentito – sarà indubbiamente un duro colpo ai jihadisti che stanno cercando di risollevarsi dalle sconfitte subite sul campo e dalla 'rottura' con i movimenti sunniti del 2007. In quell’anno, infatti, cominciò a svilupparsi il Sahwat (Risveglio), che favorì un compromesso fra il governo centrale e il comando militare statunitense con i capi tribali sunniti e il loro inserimento nel processo di stabilizzazione politica. In questi mesi, tuttavia, il primo ministro al­Maliki sembra aver mutato atteggiamento verso tale minoranza, con l’arresto di numerosi suoi capi e la repressione militare di alcune milizie. La ripresa degli attentati contro i soldati americani e locali, come pure degli attacchi contro la popolazione, è stata per alcuni analisti favorita anche dalle nuove tensioni inter­religiose. Le motivazioni di questo nuovo orientamento, apparentemente controproducente, sono molteplici. Il rafforzamento di al-Maliki ha implicato il consolidamento dell’esecutivo centrale a scapito dei governi provinciali, e dell’idea – sostenuta con forza dai curdi – di un federalismo spinto, con una capitale che controlla molto poco dei processi politici ed economici delle province. Ciò ha tuttavia prodotto l’aumento delle tensioni fra le diverse compagini della vecchia alleanza elettorale sciita. Al-Maliki ama proporsi come un leader di tutti gli iracheni, e non come il capo settario di una fazione, la verità però è che i tentativi di superare l’identificazione etnico­religiosa sono estremamente faticosi. Il premier da un lato cerca di indebolire i gruppi tribali sunniti, combattendone alcuni e cooptandone altri, mentre dall’altro deve dimostrare agli sciiti di non voler 'svendere' il loro potere per il proprio tornaconto personale (come lo accusano di fare gli sciiti radicali legati a Muqtada al-Sadr). Rafforzare l’autorità delle strutture centrali significa inevitabilmente scontrarsi con i troppi poteri locali e tradizionali. Sullo sfondo, la crisi economica seguita al crollo del prezzo del petrolio, che rende impossibile l’elargizione di fondi e salari pubblici a pioggia per catturare il consenso popolare, e il graduale ritiro delle truppe statunitensi, che spinge i militanti jihadisti a testare la capacità di tenuta delle forze di sicurezza nazionali. Una strada tortuosa e scivolosa, quella che porterà alle prossime elezioni, probabilmente costellata da violenze e tensioni politiche. Diventa allora fondamentale ricordare a una comunità internazionale distratta dalle troppe crisi quanto l’Iraq abbia ancora bisogno di attenzione e di sostegno.
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