La notizia dell’elezione di Antonella Polimeni, prima donna alla guida dell’Università La Sapienza di Roma, è di pochi giorni fa. Ma, consultando i lanci di agenzia, gli articoli di stampa e la mole di traffico sui social che questo evento inedito ha portato con sé, non sembra del tutto chiaro quale sia il suo appellativo: rettore o rettrice? Il fatto che le donne alla guida di uno degli 84 atenei italiani siano appena 8 non agevola la chiarezza. Ma in queste settimane si sono verificate altre 'prime volte' che interpellano la nostra lingua. Maria Luisa Pellizzari è il vicecapo, la vicecapo o la vicecapa della Polizia di Stato? Andando fuori dai confini italiani, Kamala Harris è il vicepresidente, la vicepresidente, o, magari, la vicepresidentessa degli Stati Uniti? E se Joe Biden nominasse una donna al ministero degli Esteri, la prescelta sarebbe il Segretario o la Segretaria di Stato? In questo caso c’è un precedente, Hillary Clinton, in carica dal 2009 al 2013, ma ai suoi tempi il problema si poneva meno rispetto ad oggi. (Le risposta a queste domande si trovano alla fine dell’articolo).
Declinare i nomi dei mestieri svolti da donne – i cosiddetti femminili professionali – è ormai un fatto per lo più accertato e accettato. Ma, soprattutto se si tratta di mestieri tradizionalmente riservati agli uomini e di grande prestigio, il femminile non è un traguardo acquisito per tutti e per sempre, come suggeriscono le incertezze riportate all’inizio. Per evitare sbandamenti o vere e proprie cantonate nella maggior parte dei casi è sufficiente consultare un vocabolario (anche online). Ad esempio, sul dizionario Treccani rettrice è chiaramente indicato come il femminile di rettore, con buona pace di tutti coloro che sui social hanno evocato la 'dittatura del femminismo'. È evidente che finché in Italia le rettrici saranno appena una manciata, la parola è destinata a essere usata poco e quindi a consolidarsi con più lentezza. Altri femminili professionali, ad esempio nel campo della politica, appaiono più in auge, grazie al fatto che numerose donne negli ultimi anni hanno occupato cariche di grande responsabilità.
La nomina di Antonella Polimeni alla Sapienza, come di Maria Luisa Pellizzari ai vertici della Polizia di Stato,
Gli appellativi 'sindaca', 'ministra', 'assessora' o 'deputata' sono ormai di uso abbastanza consolidato, anche se darebbe una mano la formulazione di una policy all’interno delle varie testate, che imponga o perlomeno raccomandi a tutti i giornalisti – anche a chi compila le didascalie delle fotografie – di utilizzare le espressioni corrette. La morfologia della lingua italiana lo richiede, a differenza di quella inglese. Una policy chiara da una parte eviterebbe che in una pagina compaia «il sindaco di Parigi Anne Hidalgo» e due pagine dopo «l’assessore Maria Rossi» e dall’altra parte darebbe un impulso decisivo al consolidamento e alla universalizzazione dell’uso dei femminili professionali. E questo sarebbe un fatto estremamente positivo per tutta la società italiana, particolarmente arretrata sul fronte della parità di genere: «Chiamare le donne che fanno un certo lavoro con un sostantivo femminile non è un semplice capriccio, ma il riconoscimento della loro esistenza – afferma la sociolinguista Vera Gheno, esperta di linguaggio di genere e autrice del fondamentale 'Femminili singolari' (2019, effequ, pagg. 216, euro 15) –. Dalla camionista alla minatrice, dalla commessa alla direttrice di filiale, dalla revisora dei conti alla giudice, dalla giardiniera alla sindaca. Noi ci siamo: nominare le donne, soprattutto le donne professioniste, può contribuire a cambiare anche la percezione nei loro confronti».
Certo, ci sono anche professioniste che preferiscono essere chiamate 'al maschile'. Di solito la motivazione che adducono è la seguente: «Conta quel che faccio, non se sono donna o uomo». La verità è che, sotto sotto, alcune hanno la sensazione che una professione declinata al maschile è più prestigiosa. «Se esistono la cassiera e la camionista, esiste anche l’ingegnera – commenta Vera Gheno –. Il femminile non toglie e non aggiunge nulla, è solo la constatazione di un fatto reale, il sesso della persona che occupa un certo ruolo». Nomina sunt consequentia rerum, insomma: i nomi sono conseguenza delle cose. Se oggi le donne esercitano ruoli e professioni tradizionalmente maschili, soprattutto di grande prestigio, esiste sicuramente un nome per dirlo, anche se è la prima volta.
«Ma evitiamo di intraprendere crociate – avverte la linguista –. Non ne facciamo una rivendicazione femminista, perché altrimenti ideologizziamo anche la lingua italiana e otteniamo il pessimo risultato di irrigidire le posizioni. Se non è femminista dire maestra, non lo è nemmeno rettrice o procuratrice. Detto questo, se una donna preferisce farsi chiamare il direttore, l’ingegnere, il fotografo, il giudice... rispettiamo la sua scelta individuale e personale. Ma ciò non toglie che i media hanno la responsabilità di essere corretti nell’uso della lingua italiana». Dunque, nessuna crociata, ma una 'spinta gentile', e soprattutto... barra diritta. Se si chiama Maria Rossi, così come è una sarta, una cameriera, una infermiera, può essere anche un’ingegnera o una pri- maria. O una architetta, a dispetto di chi si rifiuta di usare questa parola perché 'suona male': del resto, non abbiamo certo depennato dal vocabolario 'cazzuola' perché sembra volgare. Così come non si può rifiutare di dire 'la grafica' solo perché la parola rappresenta (anche) il layout di uno scritto: la polisemia in italiano è assai frequente. La matematica, la statistica, la chimica erano solo materie scolastiche, prima che arrivassero in massa le scienziate...
Poi ci sono quelli che cercano il pelo nell’uovo pur di non arrendersi all’evidenza. Ecco che preferiscono dire 'Economo' anche se è appena stata nominata una donna perché 'si intende la funzione'. «Anche re è una funzione, eppure ha il suo femminile, regina. E lo stesso professore. Tutto ciò che facciamo è un ruolo – sorride Vera Gheno –. Comunque, quando si parla astrattamente di un ruolo è giusto il maschile, ma quando dentro quel ruolo c’è una donna, il femminile è d’obbligo ». Ed ecco la risposta alle domande in apertura di questo articolo, formulate con l’imprimatur di Vera Gheno: Antonella Polimeni è senza dubbio la rettrice della Sapienza, lo determina il vocabolario, lo esige l’interessata e lo certifica l’uso ormai diffuso della parola. Maria Luisa Pellizzari è la vicecapo della Polizia di Stato, ma solo per il momento, perché quando le donne in questo ruolo saranno più numerose, si potrà azzardare anche un 'vicecapa'. Kamala Harris è la vicepresidente degli Stati Uniti. Non vicepresidentessa: il suffisso -essa è accettabile quando il suo uso è consolidato come in professoressa, ma è meglio non incrementarne l’impiego poiché in passato era usato per indicare la moglie di un personaggio importante (la dogaressa) oppure per imprimere un lievissimo accento canzonatorio (la generalessa). Per questo stesso motivo, no ad avvocatessa, sì ad avvocata. Infine, se il ministro degli Esteri americano sarà una donna sarebbe giusto chiamarla la Segretaria di Stato. E non ci si preoccupi di confonderla con la segretaria d’azienda. È il contesto che aiuta a capire se si sta parlando di una impiegata o di una ministra.