Ieri un buon numero di case è stato consegnato agli aquilani dal capo del governo. È un gesto che ha una forte valenza simbolica, al di là del fatto che il grosso del lavoro di «rialloggio» – per usare un termine volutamente sostitutivo della temuta «riallocazione» – di un’intera città, nell’ambito di abitazioni provvisorie, vada ancora fatto col tempo (anni) che richiederà, come tutte le persone di buon senso sanno. Un terremoto come quello del 6 aprile che ha colpito un’intera città, di quasi ottantamila abitanti, non si verificava da un secolo in Italia, trovando un remoto e incomparabilmente più grave precedente solo in quello di Messina e Reggio Calabria del 1908. E «riabitare» è importante dal punto di vista psicologico perché fa sentire all’Aquila una vicinanza dell’Italia e del mondo. Una vicinanza esaltata dalla estraneità di coloro che sono corsi ad aiutare l’Abruzzo, come si è visto, nel mese scorso, alla consegna delle primissime casette, realizzate a tempo di record da parte degli operatori del Trentino, a qualche chilometro dall’Aquila, dove i terremotati sono entrati senza riuscire a trattenere le lacrime. Loro, impietriti ai funerali, cinque mesi fa, davanti alla fila senza fine di bare dei loro familiari nella spianata di Piazza d’Armi, in una commozione incapace di lacrime e avvolta in un’invincibile riservatezza tutta abruzzese, tutta siloniana, capace di spaccarsi in due prima di scomporsi all’emozione, che ha stupito il mondo e strappato lacrime a Michelle Obama, nel G8. Ecco l’Abruzzo, per chi non lo conosca. Per noi abruzzesi, che ci viviamo, che abbiamo visto la nostra terra ferita e ne abbiamo gridato la bellezza con lo stesso appassionato pudore di cui Cristo ci ha insegnato ad avvolgere l’umiliata regalità della persona umana, non c’è alcuna sorpresa nella compostezza di questo dolore. Solo non avremmo voluto che fosse conosciuto così. Eppure, se conosciamo il cuore della nostra gente, non siamo sicuri che qualche lacrima, dando le spalle alle telecamere, non sia scappata, ieri, alla consegna delle prime case. Perché riavere una casa non significa solo riavere una casa. Significa molto di più. Ripartire. Ricominciare a vivere. Celebrare la prima vittoria, quella del restare. Circondando la città in un abbraccio che sia come un incoraggiamento a risorgere, quando a Natale il centro dell’Aquila sarà spento di luminarie e il freddo della montagna sembrerà ancora più freddo col buio; quando la primavera tornerà a imbiancare i mandorli, inconsapevoli della scossa che non li ha sradicati, come un presagio di rifioritura; quando la prossima estate non sarà più, come si spera, un’estate nelle tende. Questo sarà importante fare, dalle case che vengono su tutt’intorno all’Aquila: starle intorno, guardarla, amarla. Stringerla, ripenetrarla, farla rivivere. Piano piano. Col tempo che ci vorrà. Nel 1703, dopo il disastroso terremoto del 2 febbraio che provocò migliaia di morti, il Vicario de’ Regolari inviato dal suo Ordine nella città stilò una relazione, scrivendo che una cosa, più d’ogni altra, lo aveva colpito: la tenacia degli aquilani nel voler rimanere lì, accanto alle loro rovine, anche in baracche di fortuna, «resistendo al freddo, al caldo e ad ogni disagio; in nessun modo – scrisse – li si potrà costringere a dissabitare». Il verbo è oggi desueto e suona strano, il senso è chiarissimo e struggente. In nessun modo, anche a costo di vivere per anni e anni nei « rialloggi » intorno alla città, gli aquilani…' dissabiteranno', neppure nel 2009. Resteranno lì, come le rocce dei monti, a guardare la piana della loro città, progressivamente restaurata, riaperta e infine restituita loro. Sarà una dura sfida. I vecchi sanno che molti di loro, come Mosè, vedranno da lontano la città promessa, senza rientrarci. Ma non importa, potranno guardarla ogni giorno. Cioè potranno - appunto - resistere, che ha la stessa radice di restare.