«Non si cambiano le regole del gioco durante la partita». Questa frase riassume nel modo migliore l’opinione di coloro che ritengono scandaloso il decreto-legge varato dal Governo per sanare il pasticcio creatosi in occasione della presentazione delle liste di candidati alle prossime elezioni regionali di Roma e Milano. Voci molto autorevoli, non solo di politici, ma anche di ex-presidenti della Corte Costituzionale, chiedono agli uomini di cultura e in particolare ai giuristi di protestare contro un’iniziativa governativa, ritenuta come minimo arrogante o addirittura lesiva della democrazia. Per quel che mi concerne, non ho alcuna intenzione di associarmi a nessuna protesta, di nessun tipo. E questo non perché non ritenga assurda, fino al limite del ridicolo, tutta la vicenda, divenuta ormai l’ emblema del pressappochismo con il quale si gestiscono procedure che meriterebbero il massimo della serietà e del rigore, ma perché ritengo giusta (anche se formalisticamente forzata) la soluzione che si è giunti a individuare. Su
Avvenire si è già commentato ripetutamente e a dovere ciò che sta accadendo. Qui, ora, mi preme sottolineare che in questa storia sta emergendo molto bene ciò che differenzia chi legge il diritto in una prospettiva formale e procedurale e chi, come il sottoscritto, pensa che per quanto le forme e le procedure siano importantissime, esse vadano ritenute come valori non ultimi, ma penultimi. Il vero valore, il valore ultimo del diritto non è il rispetto delle forme, ma la giustizia: e giustizia vuole che in una competizione elettorale gli elettori di un partito radicato e a vocazione maggioritaria nel Paese non possano essere esclusi dal voto. Sì, mi sento rispondere, ma le norme che regolano le elezioni esigono un rigido rispetto. Non si possono cambiare le regole del gioco durante la partita! Verissimo. Ma nel nostro caso le partite in senso proprio (cioè le votazioni) non sono ancora iniziate. Stiamo ancora nella fase preliminare in cui si deve stabilire chi potrà o no partecipare al gioco. Escludere dal gioco un giocatore, non per ragioni di sostanza, ma per ragioni di forma, è assurdo, perché toglie senso al gioco in quanto tale (che senso avrebbe una partita in cui ci fosse un solo giocatore?). Il formalista questo non lo capisce: per lui l’applicazione rigorosa delle regole è comunque doverosa, anche se da esse dovesse derivare l’impossibilità di giocare. Questo è il paradosso eterno del formalismo in tutte le sue varianti (dal fariseismo al legalismo): per i formalisti l’ amore delle norme è tale, che non esitano a chiudere gli occhi davanti alla realtà. Viene da pensare che essi ritengano che si debba giocare non per amore del gioco in quanto tale, ma perché è bello applicarne le regole; che si debba vivere non per amore della vita, ma per poter rispettare le norme del codice. Ma la democrazia non vive forse di regole e di procedure? Certamente e guai se così non fosse. Ma, ripeto, regole e procedure vanno lette, sempre tenendo presente che il diritto esiste per garantire la vita sociale e non viceversa; che il diritto è per l’uomo e non l’uomo per il diritto. Le regole di presentazione delle liste esistono per far sì che vengano ammessi alla competizione solo quei partiti che possiedano una consistenza "reale" e per evitare che sulla scheda elettorale finiscano per comparire i nomi di candidati del tutto occasionali o pretestuosi. Ecco perché l’esclusione, per ragioni formali, di una lista minore, politicamente "irreale", può essere dolorosa e (pur dovendosi cercare tutti i modi per sanarla) tollerabile, mentre l’esclusione della lista di un partito "principale" è semplicemente intollerabile. So bene che i formalisti non accetteranno mai questo modo di pensare; ma so anche bene che ragionando in tal modo i formalisti perdono inevitabilmente il contatto con la realtà e – cosa infinitamente più grave – fanno perdere tale contatto anche al diritto.