Ci si potrebbe chiedere, retoricamente: «Ma, dopo Auschwitz, che altro potrà dire, e si potrà dire?». Risposta: «Nulla». E forse, se si resta sul piano logico della parola, è anche vero, specie se ci si ricorda – o lo si va a rileggere – quel formidabile discorso. Ma l’annuncio della visita che Benedetto XVI compirà il prossimo 27 marzo alle Fosse Ardeatine non è di quelli da liquidare in fretta. Perché il Papa è il Papa. Ed è tedesco.L’immenso blocco di granito che sovrasta il Mausoleo dove nel ’44 i nazisti uccisero per rappresaglia trecentotrentacinque italiani, è uno di quei monumenti che parlano. Quando ci stai sotto, ti restituisce tutta l’oppressione dell’orrore che vogliono rappresentare. Te lo senti addosso, appiccicato alla pelle come un gelido, pesante sudore di pietra. Potresti visitarlo cento volte all’anno senza mai assuefarti. Le file di tombe. I nomi che ancora mancano. Joseph Ratzinger, il Papa, l’uomo che è Papa, verrà qui. A sentire quel sudore sulla sua pelle. Pregherà. Parlerà. Ma farà anche quacos’altro.Molto s’è detto su quello che Karol Wojtyla-Giovanni Paolo II ha fatto per la sua Polonia, e per tutti i polacchi. Su quanto abbia influito sul corso della storia della sua patria. Ma poco, o quasi nulla, s’è detto su quello che Benedetto XVI sta facendo per la sua, di patria. Che ancora non ha fatto tutti i conti col suo terribile passato, tabù esorcizzato in un complesso di leggi che, se puniscono ogni negazionismo, non possono assolvere da quella sorta di complesso di colpa collettivo che ancora attraversa in mille forme la società tedesca. E dove, per odioso contrasto, il revanscismo nazionalsocialista è più insidioso e scoperto.Dalla visita ad Auschwitz a quella al cimitero polacco di Montecassino, passando dall’omelia della Messa per la beatificazione di Newman fino (il 27 marzo) alle Fosse Ardeatine, Papa Ratzinger s’è calato in questa storia in punta di piedi. Con un’enorme, coraggiosa umiltà, consapevole del peso che la sua germanicità avrebbe avuto su ogni suo gesto, su ogni sua parola. Ponendosi le domande irrisolte di tutti –
«Dove era Dio in quei giorni? Perché Egli ha taciuto? Come poté tollerare questo eccesso di distruzione, questo trionfo del male?» –, e invitando a gridare verso Dio non la nostra rabbia, ma che «spinga gli uomini a ravvedersi, così che riconoscano che la violenza non crea la pace, ma solo suscita altra violenza». È stato, è, il suo, un mettersi faccia a faccia con la più difficile delle storie, nella prospettiva di un tedesco che ha «vissuto e sofferto lungo i tenebrosi giorni del regime nazista». E che nella fede nel «Dio della ragione» attinge la forza per proclamare la «ragione dell’amore».Quel 28 maggio del 2006, il giorno della visita ad Auschwitz, c’era un tempo da lupi. Freddo, e pioggia battente dalle nuvole pesanti che rendevano ancora più spettrale lo sconvolgente scenario del campo di sterminio. Quando Benedetto XVI iniziò il suo discorso, dal palchetto eretto là dove un tempo si fermava la locomotiva dei treni dai cui vagoni piombati scendevano gli sventurati destinati alla morte, la pioggia si fermò. In pochi minuti il cielo si aprì, e un gigantesco arcobaleno si disegnò nel cielo, levandosi dal Krematorium 2 ad attraversare in diagonale tutto il campo. Fosse stato un film, si sarebbe pensato a una pessima sceneggiatura. Troppo voluta. Troppo kitsch. Troppo
troppo. Ma non era un film. Per questo tanta gente piangeva.