Chissà se Alex (nome di fantasia) si sta rendendo conto di quel che ha fatto. Se sa che cosa significhi essere «indagato» dalla Procura minorile della sua città, Bolzano. Se i suoi genitori gli stanno spiegando quel che egli non deve aver compreso nei suoi primi 14 anni di vita. Se le compagne di scuola sono sollevate o dispiaciute per la chiusura del sito dove Alex collocava, da collezionista che ostenta la sua collezione con orgoglio, le foto in cui si mostravano seminude in pose da loro ritenute provocanti.Chissà. Non è il primo né sarà l’ultimo episodio che dimostra come una porzione di nostri figli si affacci all’adolescenza con il cuore e la coscienza anestetizzati. Peggio: mitridatizzati. Non solo non sembrano provare pudore, vergogna, riprovazione, indignazione e altri sentimenti analoghi, ma riescono a ignorarli senza farsene sfiorare. È come se dosi minuscole ma quotidiane di "veleno" – il veleno dell’indifferenza, del corpo considerato come oggetto, della messinscena e dell’ostentazione continue come cifra dell’esistenza – li avessero resi immuni dal veleno stesso, consentendo loro di maneggiarlo con noncurante disinvoltura.Una porzione di adolescenti, sia chiaro. L’errore, da circa cinque millenni, ossia da quando abbiamo testimonianze in merito, è il solito: far coincidere la parte con il tutto. Alex, con il suo sito internet chiuso dalla polizia postale di Bolzano, è il classico albero che cade, fa un gran fracasso e induce i pigri, i miopi e i pessimisti a oltranza a credere che sia crollata l’intera foresta. Alex non è solo, ma non è neppure maggioranza. È però una minoranza vistosa, esibizionista, fragorosa che rischia di oscurare la maggioranza di quattordicenni che vivono accanto ad Alex senza farsene sfiorare, senza condividere pressoché nulla del suo mondo.Alex però c’è, ingombrante e inquietante. È un segno dei tempi che sarebbe imperdonabile ignorare. Alex, e le sue amichette felici di finire nel suo sito, orgogliose delle proprie forme acerbe offerte allo sguardo di tutti, giovani e vecchi, sono l’icona indigesta del mondo come palcoscenico, dove tutto va esibito. Alex e amiche l’hanno "imparato". Vedono e ascoltano adulti i cui sforzi sono protesi tutti e soltanto all’apparire; al riuscire a strappare sguardi e commenti ammirati; al circondarsi di oggetti totemici la cui magia conferisca il potere di sedurre e comandare. Alex e amiche semplicemente si adeguano, a modo loro, da quattordicenni.Dispiace doverlo ammettere, ma aveva ragione Guy Debord (noioso, rancoroso, antocontemplativo... tutt’altro che un "maestro", per noi) quando, nel 1967, affidava al suo libro <+corsivo_bandiera>La società dello spettacolo<+tondo_bandiera> una terribile profezia. Dello slittamento dall’essere all’avere avrebbe scritto Erich Fromm nel 1976, con ben altro spessore. Debord vedeva oltre: lo slittamento era triplice, dall’essere all’avere e dall’avere all’apparire, quell’apparire «da cui ogni "avere" effettivo deve trarre il suo prestigio immediato e la sua funzione ultima». Tutto diventa spettacolo, nella società – oggi di Alex e amiche – in cui lo spettacolo, suggerisce Debord, è il «rapporto sociale fra individui mediato dalle immagini».Chissà se, come ieri un’agenzia di stampa affermava sicura, il fenomeno del <+corsivo_bandiera>sexting<+tondo_bandiera> – l’ostentazione mediatica di sé come corpo ridotto a merce da esibire e osservare – «dilaga tra i giovanissimi». C’è, non va sottovalutato, ma forse non è così «dilagante». La speranza è che qualcuno spieghi ad Alex e alle sue amiche che non tutto è merce e c’è qualcosa che appartiene soltanto a noi, e non va esibito. Che la vita non è un grande spettacolo e la società non è un colossale palcoscenico, anche se qualcuno ha interesse a farcelo credere per renderci più docili, creduloni e manipolabili. Il corpo, il cuore e la coscienza, strettamente uniti, sono soltanto nostri e vanno donati, con generosità e prudenza, al momento opportuno a chi ne è veramente degno.Già , ma chi? Chi può spiegarglielo non può essere che un adulto, autorevole perché credibile. Un educatore vero. Ciò di cui c’è più che mai un disperato bisogno, dietro le quinte del palcoscenico.