La scoperta (non nuovissima, peraltro) farà felici le moltitudini di emigrati che da generazioni sono separati dalla terra d’origine e insieme farà storcere il naso agli etnocentristi che reclamano il proprio primato. Perché non è il ceppo etnico, la razza, il genoma a fare un popolo, ma innanzitutto la lingua e la cultura. I greci chiamavano koinè (cioè comune) quel dialetto in uso ai tempi di Alessandro Magno che rapidamente si estese in tutto il Mediterraneo e divenne lingua franca anche nel mondo latino: il Nuovo Testamento, la Bibbia cristiana sono stati diffusi inizialmente nel greco alessandrino che quasi tutti all’epoca potevano comprendere, scavalcando razze, popoli, genealogie. Nondimeno i greci appellavano come bárbaroi (letteralmente: balbuzienti) gli stranieri che 'balbettavano' lingue diverse dalla koinè. Non era l’aspetto né l’appartenenza biologica, ma la lingua a marcare le differenze, e semmai – per estensione – 'barbaro' era considerato (soprattutto a Roma) colui che era privo di leggi scritte, non conosceva l’alfabeto ed ignorava o non condivideva i fondamenti civili e sociali comuni.
Non ci dobbiamo stupire insomma delle spinte centrifughe che in questo scorcio di secolo affliggono l’Europa: il vizio diffuso dell’ etnocentrismo, la propensione cioè a considerare il proprio gruppo come l’unico metro possibile per valutare e interpretare le altre culture, ha come si è visto origini antiche ed è presente pressoché in ogni angolo del mondo, con qualche felice eccezione: l’impero romano resistette per secoli fino a quando seppe amalgamare e gestire le differenze fra i suoi innumerevoli popoli e così fece la dinastia Han in Cina. Quattro secoli di guerre e di divisioni nell’Europa moderna dovrebbero averci insegnato che non è mettendo alla porta chi è diverso che si guadagna il biglietto d’ingresso nel paradiso degli eletti.
Eppure, anche nell’Europa di Maastricht, del Trattato di Lisbona, dei cruciali e spesso dimenticati Criteri di Copenaghen (che vincolano i Paesi membri al rispetto dei diritti dell’uomo e a quello delle minoranze), fiammeggiano – in una mortificante semplificazione concettuale che amalgama in un ingannevole rapporto di causa-effetto le istituzioni comunitarie e la congiuntura economica – focolai xenofobi, sussulti razzisti, velleitarie utopie secessioniste. Sapessero, questi Braveheart che cavalcano lo scontento generale, che proveniamo tutti da qualche umilissima famiglia in una male illuminata catapecchia dove il problema principale era mettere insieme il pranzo con la cena e sopravvivere oltre i trent’anni, sarebbero forse meno orgogliosi di disfare a parole la tela dei popoli che con pazienza si è cominciato a filare già all’indomani del secondo conflitto mondiale. Una tela nella cui trama questa volta i barbari sono loro.