In questo articolo si vuol parlare di felicità. Farlo in un momento come questo, mentre ancora ogni giorno dobbiamo contare i morti, e siamo più o meno tutti in "zona rossa", può sembrare fuori posto. Ma è proprio nelle ore più buie che dobbiamo aprire le porte alla speranza. È anche per questo che tante associazioni hanno deciso di organizzare il Festival per la Giornata della vita nascente, che si è svolto ieri, rigorosamente online. Non un dibattito paludato, ma un clima festoso, in cui si sono alternate riflessioni di esperti, dati statistici, testimonianze di personaggi dello spettacolo, dello sport, di professioni coinvolte nell’evento-nascita. Perché, come recita lo slogan del Festival, «dare la vita dà vita», e niente come un bambino che viene al mondo solleva il morale, riempie il cuore.
Eppure, in tutta Europa i figli non si fanno più tanto, e gli italiani ne fanno meno degli altri. Il problema investe ormai anche i Paesi in via di sviluppo, in cui il tasso di natalità sta precipitando. È un paradosso diventato indiscutibile: man mano che un Paese raggiunge un certo grado di benessere avanza l’inverno demografico, che qualcuno, con un gioco di parole dantesco, ha definito «inferno demografico». Questa constatazione non mette certo in discussione la richiesta di aiuti alla maternità, di una tassazione equa per le famiglie con figli, di maggiore attenzione alla conciliazione famiglia-lavoro, insomma, di uno sforzo forte e continuativo da parte della politica per sostenere le mamme e i papà ed evitare che mettere al mondo un bambino sia un fattore di impoverimento. Si tratta di provvedimenti urgenti e necessari, di elementare giustizia, su cui l’Italia – che si appresta a varare secondo il ribadito impegno del premier Draghi l’assegno unico e universale per ogni figlio –, è in ritardo e che in altri Paesi si sono dimostrati utili. Però queste politiche (che non smetteremo di chiedere) non bastano. Serve anche capire i motivi del paradosso a cui si è accennato: perché gli italiani facevano tanti figli quando c’era povertà diffusa, e persino quando infuriava la guerra, mentre in tempo di pace e di benessere ne fanno sempre meno? Una recente indagine commissionata dalla Fondazione Donat Cattin ci dice che la maggioranza dei ventenni di oggi immagina il proprio futuro senza bambini, il 20% pensa che vivrà da single, e addirittura il 37% ritiene i figli un ostacolo che condiziona la vita.
Questa, oggi, è la vera questione antropologica: il panorama che l’indagine restitusce è quello di un individualismo galoppante, che sta dissolvendo le relazioni fondamentali, la coesione di una comunità, la solidarietà tra generazioni.
Il benessere non è accompagnato da una crescita morale, e la spinta al consumo (di beni, di esperienze e anche di relazioni) disegna un preciso modello di felicità, a cui sottrarsi è difficile. È un modello che ci viene proposto senza alternative, come fosse l’unico possibile, e se non lo seguiamo ci sentiamo esclusi, deprivati. L’apericena, gli eventi di massa, l’uscita con gli amici, non sono soltanto momenti piacevoli ma qualcosa di più, il modo in cui ci riconosciamo negli altri, situazioni condivise che ci fanno sentire parte di un "noi". La famiglia, i figli, e le relative responsabilità non rientrano nei modelli proposti.
Se vogliamo provare a cambiare direzione dobbiamo agire anche su questo piano, ed è il tentativo del Festival. Far vedere tutta la ricchezza della genitorialità, la gioia che può offrire l’impegno generoso della cura, ricordare che cosa davvero significhi essere madre, portare una vita in grembo, custodirla. Far cogliere il senso della paternità, che sa accompagnare e far crescere. Mostrare come qualche piccolo sacrificio sia ripagato dall’esperienza di un’affettività gratuita che appaga profondamente, e che è per sempre. In questo momento, difficile per tutti noi, è ancora più evidente che solo gli affetti sicuri aiutano a non sentirci soli.