venerdì 1 marzo 2013
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Grazie a Dio, la musica della Chiesa è per orchestra, non per solisti e primedon­ne. Il canto nuovo dell’Agnello che è stato immolato – l’unico che conosce alla perfe­zione i toni della voce del Padre – è affida­to alla coralità delle voci. Il direttore, le pri­me parti, le file degli orchestrali, i coristi, ciascuno col proprio ruolo e il proprio tim­bro, sono al servizio di una musica di Dio, che solo il Figlio poteva comporre per gli uomini. E l’ha affidata alla Chiesa. Avevo appena detto, parlando di estetica della santità e della testimonianza, di un cristianesimo che deve diventare più mu­sicale.
Il Papa Benedetto XVI ha indicato al Collegio dei Cardinali, riuniti ieri mattina in Vaticano per il suo congedo, l’icona del­l’orchestra. La più adatta a intendere il va­lore aggiunto della collegialità apostolica. È la metafora giusta. Non si tratta di as­semblare una macchina burocraticamen­te efficiente, né di lavorare col bilancino del­le dosi per una ricetta di successo. Si tratta del senso della fede, della giusta intonazio­ne, dell’intesa che nasce dall’abitudine a suonare insieme e del gusto per l’accordo migliore.
Il Collegio dei Cardinali deve da­re la percezione di un’orchestra dove le di­versità, che sono «espressione della Chiesa universale», concorrono alla bellezza e alla ricchezza «di una superiore e concorde ar­monia ». E tutti devono poterla sentire. Il popolo di Dio, sorprendentemente affol­lato di molti dei quali «neppure conoscia­mo i nomi», come dice il libro dell’Apoca­lisse, ha colto il segnale. Il Papa Benedetto ha dato il 'la' alla giusta accordatura degli strumenti, per la prova d’orchestra che de­ve incominciare: con un nuovo direttore. Le moltitudini hanno sentito che questo Pa­pa, con lo storico gesto di un congedo umile e fermo dal ministero petrino, in favore del­la Chiesa, la incoraggia – a cominciare dal­le prime parti – a inaugurare l’epoca di una nuova performance sinfonica della fede.
Gli ultimi giorni, le ultime ore, del ministero petrino di Joseph Ratzinger sono stati af­fettuosamente restituiti alla loro verità e al­la loro grandezza, proprio da questo popo­lo pellegrinante. Il suo ascolto fine dei toni di voce e dei gesti profetici di Benedetto XVI è apparso di gran lunga l’interpretazio­ne migliore. Più acuta e precisa di molte len­zuolate giornalistiche, ossessionate dalla ri­cerca delle note false (con le loro sussiego­se deduzioni apocalittiche, più ispirate a Nostradamus che al preteso rigore teologi­co delle loro proiezioni). Il sensus fidei fide­lium, l’istinto della fede, ha letteralmente circondato Papa Ratzinger, mostrandosi più ammirato e intenerito di un dono alto e i­natteso, di quanto non fosse – giustamen­te – addolorato e commosso per il distacco che lo accompagna. «È bene per voi che io me ne vada». Senza potersi liberare del tut­to dallo struggimento, questo popolo ha ca­pito la bellezza dell’atto di fede che gli è sta­to consegnato.
L’Anno della Fede ha avuto il suo gesto profetico. Non potrà più essere una commemorazione: sarà azione della fede, o non sarà. Quanto a lui stesso, il piccolo grande uomo che ora, nei suoi ultimi gesti del ministero che conferma la fede, ringrazia tutti e inco­raggia tutti, ha sentito benissimo l’intensità di questo ascolto ammirato e attento. «Ve­do una Chiesa viva», ha detto, abbraccian­do un’ultima volta il popolo pellegrinante che lo circondava di ammirazione e di sti­ma. E li ha chiamati amici, con una fre­quenza inconsueta, in queste ultime ore. Tra poco, sarò «semplicemente un pelle­grino che inizia la sua ultima tappa su que­sta terra», sono state le sue ultime parole da Papa, nel saluto finale a Castel Gandolfo.
Congedo dalla direzione dell’orchestra, non senza lo splendido atto della conferma del suo intatto significato: tra voi, ha detto Be­nedetto XVI ai cardinali, «c’è anche il futu­ro Papa, al quale già oggi prometto la mia incondizionata reverenza e obbedienza». Congedo dal ministero petrino della Chie­sa, ma non dal servizio totalmente dedica­to alla Chiesa che ne ha indelebilmente pla­smato la persona. «Vorrei ancora lavorare con tutte le mie forze, con il mio cuore e la mia preghiera, per il bene della Chiesa e del mondo». Quando racconteremo tutto que­sto, nella Chiesa, alle generazioni che oggi non c’erano, dovremo alzarci in piedi, e chi­nare lievemente il capo. E tendere l’orec­chio, nella speranza di poter ascoltare, in­sieme con loro, la musica che deve seguire.
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