Lo scandalo è la guerra. L’indecenza dell’uccisione degli innocenti e, comunque, la violazione inaccettabile di quel mistero che chiamiamo vita. Bella o brutta che sia; ben spesa oppure malvissuta, in ogni caso la vita è e resta intangibile e sacra (due termini etimologicamente identici). La modernità che pure ha contribuito ad allentare molti vincoli etici nelle relazioni umane, proponendoci la guerra sempre più da vicino, contribuisce a rendere più evidente la questione morale che sempre l’accompagna. Con la conseguenza di porre anche a noi che ne siamo lontani, l’urgenza di una scelta tra le parti: tra la verità e la menzogna, oppure e peggio, tra il coraggio e la viltà. Insomma la guerra impietosamente esposta nei media (dai grandi network sino all’infinita trama dei percorsi di comunicazione in rete), ci coinvolge e influisce sui comportamenti, culturali e politici prima di tutto. E in questo scuotimento generale della coscienza collettiva, tornano a sovrapporsi drammatiche polarizzazioni prima quasi dimenticate. In mezzo a tante, forse la più dirimente è quella che intercorre tra la pietà e la ragione, e, dunque, tra il più umano dei sentimenti e il più alto attributo dell’uomo, l’intelligenza. Due estremi tra i quali si distende un vasto territorio occupato da una infinità di elementi e di sensazioni, che riproduce nella coscienza di ciascuno le difficoltà reali delle parti in conflitto nella ricerca di una composizione accettabile e dignitosa per tutti i contendenti. Ed è proprio questa trasposizione a trasformare l’inerzia naturale dell’opinione pubblica in una partecipazione che da lontano si coinvolge negli eventi della guerra e del dolore che da essa promana. E da lontano l’unica partecipazione possibile è la manifestazione delle diverse solidarietà e, dunque, il trasferimento del conflitto combattuto con le armi, nel cuore stesso dell’opinione pubblica che così trova un ulteriore elemento di divisione, tra i tanti che già la frammentano, rendendola sempre più indecifrabile. L’impatto della guerra sull’opinione pubblica, però, non è una variabile indifferente. La storia recente, compresa quella di Israele, ha mostrato che una vittoria militare da sola potrebbe non bastare, se essa non fosse accompagnata da un consenso che ne giustifichi i costi umani e materiali, e che annulli gli effetti emotivi delle strumentalizzazioni di chi sfrutta le sofferenze degli altri per riconquistare spazi politici e posizioni di privilegio perdute. Tutto ciò rende la guerra ancora più crudele, ma non fa più innocente chi da lontano la strumentalizza. E sempre a senso unico. È strano, ma tra i mutamenti culturali della modernità, vi è anche la possibilità di sporcarsi le mani di sangue innocente restando al sicuro da qualsiasi rischio ravvicinato. In questi giorni in cui le notizie spezzandoci il cuore, ci dovrebbero invitare a qualche più profonda riflessione sulla vita e sui destini del mondo, sento invece ritornare l’eco di voci e di slogan di odio che brandendo un dolore che non gli appartiene, approfittano della guerra per ricavarsi uno spazio che per altre ragioni essi avevano perduto. Quelle grida certamente fanno pensare, anche perché hanno per bandiera le stesse immagini del dolore innocente che erodono l’anima. Ma non mi persuadono perché usano la guerra, e così non aiutano la pace.