Quando si entra a Onna, la frazione che è diventata il simbolo del disastroso terremoto abruzzese, la prima via che ci si ritrova davanti è dedicata ai «Martiri del ’44». Una dedica e una targa messe per non dimenticare i diciassette contadini aquilani sepolti dai nazisti sotto la loro casa, con la dinamite. Una brutta storia di cavalli rubati e di efferata violenza, che, come tante altre brutte storie di guerra, attende ancora una degna conclusione dalla giustizia degli uomini. Eppure, oggi, sono proprio i martiri di Onna a offrirci la possibilità di scrivere e leggere una pagina di cronaca – quella cronaca che a volte si fa storia – più giusta. Sono loro e i loro pronipoti, sepolti nelle stesse case da un nemico mille volte più devastante della dinamite: la gratuità del sacrificio di ieri e di oggi sembra – ripetiamo, sembra – in grado di suturare antiche ferite e condurre anche chi per anni ha seguito strade diverse a incontrarsi sotto la stessa bandiera, una stessa consapevolezza, stessi valori. A riconciliare l’Italia. L’«immane tragedia», come Benedetto XVI ha definito il sisma che in Abruzzo ha spazzato vite e futuro, ha scosso il nostro Paese a tal punto da infondere nel mondo politico il coraggio dei passi e dei gesti importanti. Quelli di chi capisce la differenza tra un avversario e un nemico, e onora il sacrificio di quanti hanno pagato con la vita la conquista della nostra libertà e dei nostri diritti politici (oggi troppe volte ridotti a moneta talmente corrente da apparire persino inflazionata). Il terremoto ha cambiato la percezione delle priorità, anche nel palazzo. L’ondata di solidarietà che sta investendo l’Abruzzo rappresenta la dimostrazione più bella che esiste un’unità nazionale profonda, addirittura intima, che riemerge dopo mesi di diatribe sul ripensamento federalista dello Stato a riprova che nessun egoismo può sradicare negli italiani la certezza di essere affratellati in storia, cultura e umanità. Sulla scena politica, il clima sobriamente bipartisan che si respira – un’atmosfera di condivisione rispettosa delle responsabilità che discendono dai diversi ruoli – merita di essere sostenuto, incoraggiato, alimentato. A partire, appunto, dalla festa di oggi: se il 25 aprile è mai stato, in passato, una stanca cerimonia oggi può esserlo ancor meno. In questi giorni di emergenza, il presidente della Repubblica ha parlato di una «straordinaria prova di riscatto civile e patriottico che non può appartenere solo a una parte della nazione». Oggi, a Onna, Berlusconi, Franceschini e Casini hanno l’occasione per dimostrare che questo è possibile. Il primo festeggia il 25 aprile da leader del più grande partito del Paese, una forza democratica nelle cui file confluiscono tradizioni politiche diverse e anche una parte significativa di quegli italiani che per anni la Liberazione non l’hanno celebrata e sentita loro. Gli altri guidano forze radicate da sempre nell’Italia che, invece, ha fatto di questa data di svolta uno dei simboli più amati. Al di là dei cerimoniali e nonostante certi inevitabili distinguo (soprattutto di quanti cercano, in vista delle prossime elezioni europee, di recuperare qualche 'per cento' tra gli scontenti e i confusi), il clima di pax sismica è già ben percepibile. E fa bene all’Italia. La Liberazione, infatti, ricorda la vittoria su un nemico, la violenza nazifascista, ma non su tutti. Altri nemici sono stati affrontati e sconfitti in una vicenda democratica lunga ormai più di mezzo secolo. Altri ancora rappresentano la sfida dell’oggi. Il terremoto è ancora in agguato e impone risposte efficaci e preveggenti. La crisi economica sta scavando trincee di disagio nella società italiana, e bisogna riempirle presto e bene. Questa è la nuova Liberazione da preparare. E la peggiore iattura sarebbe che il ritrovato «25 aprile di tutti» per la nostra classe politica durasse solo un giorno.