Che cosa si nasconde realmente dietro il più grande fenomeno di 'migrazione elettorale' mai registrato in Italia dal dopoguerra? Come mai 12 milioni e 700 mila nostri connazionali, pari a quasi il 40 per cento dei voti validamente espressi tra domenica e lunedì scorsi, hanno accettato tutti insieme, senza esitare, le nuove offerte partitiche (Grillo, Monti, Ingroia, Giannino) presenti nelle schede 2013?
Oltre allo scontento e alla protesta, al di là del disincanto e magari del disgusto, quali altre motivazioni possono aver sospinto tanti concittadini ad abbandonare i 'vecchi prodotti' disponibili sul mercato per investire, quasi d’istinto, il loro suffragio in entità politiche mai sperimentate prima? Siamo un Paese che per decenni, ai tempi della prima Repubblica, era stato abituato a registrare impercettibili variazioni di pochi punti percentuali tra una sigla storica e l’altra. E dove la disaffezione verso la propria 'casa' di appartenenza tendeva a esprimersi piuttosto con l’astensione che con l’abbandono o il trasferimento ad altri lidi. Con l’avvento della cosiddetta Seconda Repubblica, la mobilità degli elettori aveva già cominciato a registrare brusche accelerazioni. E nessuno può certo dimenticare il clamoroso 'pieno' incassato a sorpresa da Forza Italia il 27 marzo 1994, con gli oltre 8 milioni di voti che di fatto svuotarono i serbatoi tradizionali del già tramontato 'pentapartito'.
Mai come questa volta, però, accanto ai passaggi da uno schieramento all’altro di quelli già esistenti (che l’analisi dei flussi in corso saprà meglio precisare), si registra una ricerca aggiuntiva, tanto spasmodica quanto diffusa, di nuovi approdi, che potrebbe indurre sociologi e studiosi della psicologia di massa a qualche riflessione ulteriore. È in effetti una domanda che non si concentra in una sola area tradizionale della nostra geografia politica e neppure in una particolare zona territoriale.
Per una aliquota significativa di essa, sembra quasi che, prima di consumare il distacco definitivo dalle urne rifugiandosi nell’astensione – che pure ha toccato in questo turno livelli mai raggiunti in una consultazione generale – , l’elettore tricolore voglia tentare fino all’ultimo una strada alternativa, non rassegnandosi a una fuga senza sbocchi. In questo senso, è un dato che, pur nella problematicità dello scenario apertosi lunedì sera, può ancora suggerire qualche considerazione positiva. Sì perché, indipendentemente dai destinatari dei suffragi, se chi va al seggio non si rassegna all’insignificanza del proprio voto, ma decide comunque di fare un tentativo in più attaccandosi all’ultima proposta emersa all’orizzonte, si può ancora sperare che la disaffezione dalla politica non abbia eroso del tutto il sentire civico collettivo.
Si può immaginare, in altri termini, che il desiderio di partecipazione faccia ancora premio sulla rabbia e sullo smarrimento che un sistema politico incapace di autoriforma ha inoculato in dosi industriali nei cittadini. Ma se è così, chi oggi ha incassato quei consensi ha una responsabilità in più: quella di consolidare la voglia residua di democrazia e di non infliggere nuove e forse irrimediabili delusioni agli italiani.