mercoledì 9 dicembre 2009
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I recenti attacchi al cardinal Tettamanzi, paragonato a un «imam» dalla "Padania" e criticato da alcuni ministri leghisti, ricordano, a chi non abbia la memoria troppo corta, bordate analoghe lanciate, undici mesi fa, dalla presidente del Piemonte, Mercedes Bresso (Pd) al cardinal Poletto, il quale, per aver criticato la disponibilità a far morire Eluana Englaro in quella regione, si vide brutalmente rispondere che l’Italia non era una «Repubblica di ayatollah».Questi commenti vanno richiamati assieme perché, a parte il poco rispetto che manifestano verso una religione diversa da quella cattolica, esprimono due concezioni del rapporto fra religione e sfera pubblica che sono entrambe riduttive, sia pure in modi opposti. Da un lato si immagina una religione confinata nel privato e si qualifica come ingerenza l’intervento dei cattolici, e dei vescovi in particolare, sulle questioni "etiche" e il tentativo di incidere sul dibattito democratico che prelude all’adozione delle leggi. Dall’altro si impugna la croce come una spada, elevandola a vessillo di una civiltà cristiana snaturata, privata di quella tensione verso l’altro che la rende a suo modo unica e che è il vero specifico del cristianesimo rispetto alle altre religioni. In fondo questa è l’era degli «opposti estremismi» circa l’uso pubblico della religione. E questo non solo da noi. È agevole, infatti, contrapporre, come espressione di queste due tendenze, la sentenza della Corte europea sui diritti dell’uomo in materia di crocifissi nelle scuole pubbliche e il referendum che ha introdotto nella Costituzione svizzera il divieto di costruire nuovi minareti. Da un lato l’uso improprio del «diritto mite» (il quale, peraltro, non è affatto mite) per imporre con sentenza le agende di riforma sociale di alcune minoranze disincarnate. Dall’altro il tentativo di utilizzare la religione di maggioranza come una clava per opprimere le minoranze, magari mediante l’uso della democrazia diretta. Esiste un modo per sfuggire agli opposti estremismi sulla religione nella sfera pubblica? Un modo c’è. E a ben vedere la soluzione, ferma la complessità dei problemi – che si presentano in forma sempre nuova e richiedono dunque creatività e flessibilità – la si trova proprio nella Costituzione italiana. A patto, ovviamente, di interpretarla rettamente, tornando al suo spirito originario, al grande compromesso costituzionale sul rapporto fra cristianesimo e libertà: un compromesso fortemente voluto dalla Dc e accettato dai comunisti e (in misura minore) dai laici e dai socialisti, non senza qualche tentativo di forzatura da entrambe le parti. Ci sembra che il senso ultimo di questo compromesso continui a connotare in maniera originale e «sana» la laicità italiana, che non va intesa come indifferenza od ostilità dello Stato verso il fenomeno religioso, ma come riconoscimento del ruolo essenziale della Chiesa cattolica (il presidente Giorgio Napolitano lo ha ricordato proprio ieri, da Milano) e come apertura al pluralismo confessionale e culturale concretamente esistente nel nostro Paese. Un compromesso molto diverso dalla laicità francese, per quanto stemperata delle sue punte più aspre negli ultimi decenni e ancor più nell’attuale fase storico-politica. E la chiave di esso sta nella modulazione del rapporto fra i valori ultimi delle democrazie contemporanee: libertà ed eguaglianza. Sinteticamente: libertà ed eguaglianza dei cittadini come singoli (con apertura a una prudente e graduale estensione della seconda agli stranieri) in materia di religione; libertà ma non eguaglianza delle confessioni religiose. In altre parole: il cuore della libertà religiosa non è negoziabile, né sottoponibile a mercanteggiamenti regolati, alla fine, dal principio di maggioranza. Essa spetta in maniera eguale a tutti. Se si passa, invece, al fenomeno collettivo, la garanzia offerta dalla Costituzione è quella della eguale libertà delle confessioni, non della sola libertà, ma neppure della piena eguaglianza, che rischierebbe di tradursi in egualitarismo, livellando ciò che per ragioni storiche e culturali è diverso.
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