Nessun colpevole, nessuna traccia concreta da seguire per arrivare a esecutori e mandanti dell’attentato dinamitardo del 17 agosto. Ad ammetterlo sono gli stessi responsabili delle indagini. Contemporaneamente, però, quella strage tra la folla nel sacrario induista di Erawan, nel cuore di Bangkok, e l’ordigno esploso il giorno successivo senza provocare vittime a ridosso di un affollato molo sul fiume che attraversa la capitale hanno avviato in Thailandia un tempo di incertezza e di rinnovata tensione. Forse proprio quello che gli attentatori si proponevano, con una strategia che potrebbe servire più di un interesse. Erewan, dedicato a Pha Phrom, la divinità induista Brahma, impetrata per ottenere fortuna e buoni guadagni, resta circondato di traffico, sovrastato dalle corse della metropolitana, dominato da lussuosi alberghi. Nello spazio prima reso claustrofobico dalla folla, sono tornate le danzatrici e i venditori di fiori, ma alla devozione corale si sostituiscono ora le preghiere per le vittime e la curiosità a volte partecipe a volte ingombrante dei turisti. Il sacrario è stato riaperto a sole 24 ore dallo scoppio, velocemente ripulito e restaurato, ma le tracce dell’esplosione restano sui muri, sui cartelli e sui pali delle luce circostanti, soprattutto sui volti di chi abitualmente vi opera ed è sopravvissuto. Un clima dimesso che include i dintorni: i grandi magazzini che sembrano ancora più vasti e glaciali del solito, i fast food e ristoranti semi-deserti. Depresse le attività di un’area, quella di Ratchaprasong, che di questa metropoli è vetrina fin troppo appariscente. Confermati 20 decessi, di cui 14 di cittadini stranieri, mentre degli oltre 120 feriti iniziali, una quarantina restano ricoverati negli ospedali cittadini. Un bilancio che si segnala come il peggiore per atti di questo tipo compiuti a Bangkok e che potrebbe segnalare una nuova stagione di crisi in un tempo in cui la giunta militare al potere e il governo che ci convive cercano di convincere i thailandesi che la pace sociale è un dato di fatto, dopo un decennio di confronti che nelle piazze della capitale hanno preso l’aspetto violenza diffusa e, appunto, di attentati perlopiù senza responsabili noti. La quiete imposta dai generali con il golpe del 22 maggio 2014 è infatti l’ultimo capitolo di una pagina della storia del Paese aperta sulla contesa tra poteri – ora vittoriosi – che cercano nella restaurazione una soluzione soprattutto alla sfida populista e potenzialmente antimonarchica lanciata un ventennio fa dall’ex premier Thaksin Shinawatra, ora in esilio. Sfida continuata dalle parti politiche che all’esperienza di Thaksin si rifanno che in due decenni non hanno mai perso un’elezione, ma quasi sempre il potere per opera di manovre delle élite tradizionali e – a volte – della propria arroganza. Due blocchi che hanno la loro base rispettivamente nella capitale e nelle province del Nord-Est, che si sono dati colori (Camicie Gialle e Camicie Rosse) e connotazioni diversi ma che hanno usato con uguale spregiudicatezza gli strumenti della politica, della piazza e della tensione. Alla fine sono state le Camicie Gialle, filomonarchiche e nazionaliste, a manovrare con successo tra ottobre 2013 e maggio 2014 per incentivare un nuova presa di potere militare (la dodicesima con successo su 19 golpe complessivi dal 1932) e una prospettiva che vorrebbe consegnare all’oblio, insieme al clan Shinawatra, anche la parte politica votata a ampia maggioranza ancora nel luglio 2011. In un certo senso, per le strade della metropoli ma non nei colloqui privati, gli eventi che hanno aperto in modo sanguinoso la scorsa settimana sembrano già lontani. Le autorità competenti e gli inquirenti ammettono di non avere un’idea sulle piste da seguire, accusano mancanza di strumenti utili alla conduzione di indagini efficaci, accettano una cooperazione straniera cercata solo giorni dopo la strage perché una tragedia nazionale non poteva o non doveva avere un’origine interna. Per giorni la polizia ha dato la caccia a un giovane dall’aspetto caucasico che, con indosso una maglietta gialla, avrebbe abbandonato uno zaino su una panchina del sacrario prima di uscirne e allontanarsi. Di lui si sono presto perse le tracce, mentre cittadini stranieri sono finiti nel mirino per la somiglianza fisica con il sospettato. A questo punto restano tre le piste possibili (con quelle di un contrasto interno alle forze armate o di una strategia della tensione in corso, che filtrano occasionalmente dalle analisi locali). La prima, quella dell’azione di gruppi, come le Camicie Rosse, vicini alla parte politica perdente. La seconda, una iniziativa dell’islamismo terrorista internazionale, forse connessa con l’espulsione a inizio agosto verso la Cina di 109 musulmani di etnia uighura in fuga con meta la Turchia. La terza, un atto dimostrativo dell’indipendentismo presente da lungo tempo nel Sud islamizzato con ampio uso di armi e esplosivi, nell’incapacità di Bangkok di venirne a capo. Il capo della polizia, prossimo alla sostituzione per regolare avvicendamento, ha indicato che la pista delle ricerche è ormai sterile e che i responsabili potrebbero essere sfuggiti per sempre alla giustizia. Aperto il contrasto con la pretesa di normalità che viene proposta. Gli stessi analisti thailandesi indicano come fuori luogo la sicurezza ostentata dalle autorità che invitano la popolazione a vivere come se i responsabili non fossero ancora liberi e potenzialmente in grado di colpire nuovamente. Da dove viene questa sicurezza, ci si chiede? Dove originano le informazioni che hanno portato a individuare altri ordigni nella capitale, incluso quello recuperato lunedì scorso in un appartamento di un’area popolare della capitale, la stessa dove nel febbraio 2012 era sta scoperta una cellula terroristica iraniana indicata come in procinto di colpire l’ambasciata israeliana? Dove nasce la ridda di ipotesi, notizie, teoremi riversata sui mass media? Ancora una volta, come in passato, difficile dire se esista una regia occulta dietro la gestione di eventi potenzialmente destabilizzanti, oppure semplice approssimazione, oltre all’onnipresente necessità di salvare le apparenze. «l governo vuole rassicurare chiunque che la situazione è sotto controllo – recita il comunicato diffuso domenica alla stampa estera dal portavoce,
generale Sansern Kaewkamnert –. Sarà rafforzato il numero di uomini sia in uniforme, sia in abiti civili, per fornire sicurezza ovunque e garantire la migliore protezione possibile». Come se la presenza di polizia e militari, le perquisizioni attuate perlopiù su stranieri e i controlli accresciuti in aeroporti e stazioni possano essere tranquillizzanti per viaggiatori che hanno percorso migliaia di chilometri per cercare svago e relax. 'Hour Home, our Country, Stronger Together' (La nostra casa, il nostro paese, più forti insieme), recita lo slogan presente in modo ossessivo nella capitale. Per diversi osservatori locali, però, l’esplosione di dieci giorni fa resterà nella memoria collettiva dei thailandesi, e non solo, per gli effetti letali. La Thailandia, per troppo tempo uguale al suo immaginario collettivo, ha scoperto nel modo più traumatico che ci sono altre forze interne e, forse, esterne che – direttamente o per contrasto, per fede in radicati principi o perché a essi opposti – spingono al cambiamento. Anche con la violenza, se necessario.