mercoledì 15 luglio 2009
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«Nostro padre era quasi cieco e praticamente sordo. Ha avuto una carriera straordinaria come direttore d’orchestra. Nostra madre era ballerina e coreografa. Entrambi hanno vissuto la vita sino in fondo e si sono sempre considerati molto fortunati. Dopo 54 anni passati insieme hanno deciso di mettere fine alle loro vite piuttosto che lottare contro seri problemi di salute. Sono morti in pace e in circostanze che hanno scelto, con l’aiuto dell’organizzazione Dignitas, a Zurigo. Non erano credenti e non ci sarà funerale».Del suicidio assistito in una clinica svizzera di sir Edward Downes, anziano e affermato direttore d’orchestra inglese, e di sua moglie Joan, ciò che colpisce di più è l’annuncio firmato dai figli. Anodina comunicazione: mamma e papà hanno preferito morire. Hanno scelto il quando e il come e, dunque, è andata nel migliore dei modi possibili. Non un necrologio, ma una serena partecipazione di lutto, dove si stenta a trovare fra le righe traccia di dolore. Hanno scelto, quei due, lucidamente; e dunque che c’è da dolersi? Come quando a teatro cala il sipario. Lo spettacolo, semplicemente, è finito. Ma il nuovo mondo annunciato dai figli di sir Downes non è solo un caso di estremo di cronaca. In Gran Bretagna il Parlamento ha pochi giorni fa bocciato una norma che avrebbe autorizzato i parenti di malati privi di coscienza a portare all’estero i loro cari perché siano aiutati a morire. Sbarrata la porta ai viaggi della morte, immediata la reazione del fronte pro-eutanasia. Questo annuncio laconico, secco, che vorrebbe essere esemplare: è così che si muore. È così che si deve essere civilmente liberi di morire. Certo, il direttore d’orchestra e sua moglie erano coscienti e padroni di sé, e quindi liberi di partire e andare dove volevano. È questo l’argomento che si farà largo e aprirà una breccia nella coscienza di chi ascolta la notizia. Erano liberi, e dunque? Liberi, certo. Lui, 85 anni, a detta dei figli ormai quasi cieco e sempre più sordo; lei, settantaquattrenne, da anni tutto giorno ad assisterlo. Immaginiamoci una coppia così, colta, benestante, materialmente assistita. Quanta solitudine occorre, in case perbene, tra gente beneducata, perché un vecchio che a ottant’anni ci vede poco e è sordo – come capita a quell’età – decida che è meglio finirla? Quanta solitudine occorre perché sua moglie, sentendo forse le forze mancare, acconsenta e voglia a quella morte partecipare? In Italia abbiamo ancora la memoria di altri vecchi: che leggono il giornale, che vanno a fare la spesa, che coltivano un orto. Un po’ sordi magari, e ne sorridono i nipoti. Ma lieti ancora di essere vivi, ogni nuova mattina. La discriminante fra sir Downes e la vecchiaia dei nostri nonni e genitori non è nella malattia, ma in una algida, bestiale solitudine. Sottoposti alla quale, pure se ben nutriti e curati, si può mettersi in coda con gli altri ottocento inglesi già prenotati alla Dignitas. Scegliendo di morire. Togliendo il disturbo. Non tanto liberamente, però. Ma sospinti e costretti, come in un gorgo, dal vuoto attorno, e dall’assenza di qualunque voce che chiami indietro. «Sono morti in pace e in circostanze che hanno scelto», annunciano compostamente i figli. È la bugiarda libertà del nuovo mondo, in cui anche il veleno è permesso. Ma non è contemplata una faccia amica che dica: non farlo, ci sei necessario, noi non vogliamo che tu te ne vada.
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