L’impressione, inutile nasconderselo, è che la Russia stia diventando sempre più pericolosa: per i suoi vicini, minacciati e aggrediti, ma anche per quei suoi cittadini, diffamati, arrestati e uccisi nel caso vogliano esprimere ad alta voce la loro critica alla politica muscolare e autoritaria del Cremlino. Boris Nemtsov, assassinato a colpi di pistola l’altra sera nel centro di Mosca, non aveva nulla del classico dissidente, intellettuale e riservato. Era invece un figlio ribelle della Nomenklatura, già brillante politico destinato a una carriera di successo all’indomani della caduta dell’Unione Sovietica, giovane ed estroverso governatore di Nizhny Novgorod, la terza città della Russia, pupillo del presidente Eltsin di cui veniva considerato il delfino. Ma, come sappiamo, la storia è andata diversamente e nelle stanze del potere s’insediò non già un ex governatore riformista, ma un ex uomo del Kgb dagli occhi di ghiaccio. Da allora Nemtsov smise di frequentare i palazzi di governo per diventare spesso ospite delle celle carcerarie dove finiva puntualmente ogni volta che organizzava una manifestazione di protesta. «Quel che voglio è una cosa molto semplice: far sì che la Russia diventi un Paese europeo dove governare non significa dominare e dove cittadino non è sinonimo di suddito», mi disse quando lo intervistai nel bel mezzo delle massicce contestazioni che si tenevano nel Paese tra il 2010 e il 2011. Aveva fondato un gruppo dal nome evocativo di
Solidarnost che raccoglieva poche migliaia di aderenti, non certo i dieci milioni della
Solidarnosc polacca. Con gli altri oppositori, l’ex premier Kasyanov, lo scacchista Kasparov, il blogger Navalny, aveva rapporti tumultuosi. Kasyanov ha scelto il basso profilo, Kasparov passa la maggior parte del tempo all’estero perché si sente minacciato, Navalny subisce continui processi e in questi giorni si trova in prigione. L’eliminazione brutale di Boris Netmsov, compiuta alla vigilia della marcia di protesta prevista per oggi, domenica, a Mosca e a un anno di distanza dall’invasione della Crimea, è un messaggio in stile mafioso, un omicidio politico che ricorda quello della giornalista Anna Politkovskaja. «Non rappresentava nulla», è stato il cinico commento del portavoce del Cremlino all’uccisione di Nemtsov, ricalcando alla lettera quel che aveva detto Putin subito dopo l’assassinio della coraggiosa reporter nel 2006. In queste terribili parole riecheggia un profondo disprezzo per la vittima il cui omicidio è considerato semplicemente un disturbo fastidioso per l’autorità costituita. Ma la questione principale non è se Putin, o qualcuno della sua cricca, sia davvero il mandante. (Anche se Nemtsov, pochi giorni fa, aveva confessato il suo timore di venir ammazzato per ordine del leader del Cremlino). Il problema drammatico è che esiste in Russia un 'cuore di tenebra' che ingoia e fa a pezzi chi ritiene essere il nemico, anzi il peggiore dei nemici, «il traditore della patria», come veniva insultato e minacciato Nemtsov sui social network. Da quando in Ucraina è iniziata la guerra (una guerra che alterna forza bruta e falsa diplomazia), in Russia dilaga un’ondata di ultra-nazionalismo che giorno dopo giorno assume i caratteri di una paranoia sociale, alimentata da una furibonda campagna propagandistica dei mass-media sotto il rigido controllo statale. Nuovi e improbabili rapper esaltano Madre Russia nel cui ventre tornano i figli d’Ucraina, un
pope ortodosso di nome Smirnov, star delle tv, vaneggia di una grande patria che si estende dall’Alaska a Odessa, le interviste di strada mostrano un popolo disposto ad affrontare sanzioni economiche e crollo del rublo pur di tenersi stretta la Crimea. È il tentativo di ridisegnare i confini delle nazioni uscite dalla Guerra fredda con un revisionismo storico sfrontato e plateale dove l’aggressore si veste da vittima, la rivoluzione popolare (e a più facce) di Maidan a Kiev è un «colpo di stato organizzato dalla Cia» e la riconquista della Crimea e della cosiddetta Novorossja è «la giusta risposta all’invasione della Nato ad Est» (sorvolando sul fatto che l’allargamento dell’Alleanza Atlantica agli ex Paesi comunisti è iniziato oltre quindici anni fa con il consenso della Russia di Eltsin). Chi, come Nemtsov, nega tutto questo ed anzi cerca le prove di un attacco all’Ucraina pianificato dal Cremlino, non è uno che la pensa diversamente; no, è semplicemente un traditore da eliminare. Quello che stiamo vivendo, diceva, «non è uno scontro tra Russia e Ucraina ma tra due modi d’intendere la Russia». Vedremo oggi quella che scenderà in piazza a Mosca nel segno della protesta e del lutto. E noi, in Occidente, con quale Russia vogliamo trattare?