La Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura e altre pene o trattamenti crudeli, disumani o degradanti, firmata a New York nel 1984, è in vigore dal 26 giugno 1987. Dunque una Convenzione "giovane", ma necessaria in un mondo dove – secondo dati recenti – 11 milioni di persone sono sottoposte a tale trattamento inumano. La novità è che accanto a prigionieri e carcerati, le vittime più colpite dalla tortura sono i rifugiati o chi è costretto a emigrare. Nelle discussioni di questi mesi sull’emigrazione poco si è tenuto conto della sofferenza inflitta a migranti e rifugiati prima e durante i loro interminabili viaggi. Sulla tortura si dice poco, perché si sa ancora poco. Anche i dati appaiono approssimativi.È una pratica silente usata più di quanto si dica, anche perché spesso gli Stati o le istituzioni carcerarie si trincerano dietro la domanda: qual è il confine della tortura?. Vale la pena richiamare l’articolo 1 della Convenzione Onu: tortura designa qualsiasi «atto con il quale sono inflitti a una persona dolore o sofferenze forti, fisiche o mentali, al fine segnatamente di ottenere da questa o da una terza persona informazioni o confessioni, di punirla… di intimidirla o di far pressione su di lei…, qualora – sottolinea la Convenzione – tale dolore o sofferenze siano inflitte da un agente della funzione pubblica o da qualsiasi altra persona che agisca a titolo ufficiale».Il divieto di tortura è un principio fondamentale del diritto internazionale. Sebbene il crimine di tortura trovi oggi pieno riconoscimento, la mancanza di casistica e di dati statistici nazionali pone un forte limite al suo svelamento. La tortura è generalmente associata a esecuzioni extragiudiziarie e "sparizioni". In molti casi è uno strumento usato per seminare paura in comunità o gruppi sociali. Si tortura per ottenere informazioni, per punire, per distruggere la personalità, per terrorizzare. È una violenza organizzata contro minoranze etniche, religiose, o appartenenti a movimenti di opposizione. Spesso la tortura è giustificata da ideologie razziste, fondamentaliste o nazionaliste che considerano le vittime esseri inferiori, subumani, verso cui tutto è lecito. La forza di intimidazione della tortura è spesso il segreto. Le proteste restano senza risposta e regna l’impunità. La paura di denunce, lo spettro di arresti portano al silenzio i torturati. È uno strumento dei forti contro i deboli. Giovanni Paolo II nel 2004 alzò la sua ormai flebile voce per denunciare la tortura come «una violazione intollerabile dei diritti dell’uomo, radicalmente contraria alla dignità dell’uomo». Così la Chiesa continua a far sentire la sua voce, anche attraverso l’opera di tante associazioni contro la tortura. Lo fa non solo con le denunce, ma con una forte attività educativa con chi lavora nelle carceri, o con i giovani attratti dalla violenza. Lo fa nelle carceri di tanti Paesi del mondo, dove la prima forma di tortura è non mangiare, non dormire, e non avere la possibilità di lavarsi e vestirsi.L’evidenza che emerge dai dati diffusi in questi giorni è che, contrariamente a quanto si pensa, la tortura non serve a far parlare, ma a far tacere. Tace chi la pratica e chi la subisce. È tempo di parlare e di agire contro la tortura e i trattamenti disumani e degradanti. Al di là di tante discussioni sui limiti di questa pratica, Benedetto XVI ha detto con chiarezza che «non si deve contravvenire in nessuna circostanza» riguardo al divieto di tortura. E ha aggiunto: «Le autorità pubbliche devono essere vigilanti, evitando ogni mezzo di punizione o correzione che indebolisca o degradi la dignità umana dei prigionieri». È un imperativo di civiltà, contro i silenzi frutto della ferocia.