Il quaranta per cento dei parti in Italia, scrive il
Corriere, avviene per taglio cesareo. Secondo molti ginecologi l’ascesa di questa pratica è inevitabile: i medici tendono a cautelarsi da ogni possibile complicazione del travaglio, praticando la cosiddetta ' medicina difensiva'; le donne, sempre più spesso primipare non giovanissime, preferiscono un ' taglio' a quel processo naturale con cui hanno perduto dimestichezza. Quaranta cesarei su cento nati, in alcune regioni anche sessanta. Viene da chiedersi se fra dieci o vent’anni il parto naturale verrà ancora considerato il modo "normale" di nascere, o invece una faccenda arcaica, quasi primitiva, cancellata dal luccicare dei bisturi in asettiche sale operatorie. Col risultato che, assimilato sempre più il parto a un intervento chirurgico, potrà compiersi nell’immaginario collettivo un’equazione inconscia: ciò che si affronta in sala operatoria, è malattia. E dunque anche il parto non sarà più fisiologico decorso di un evento naturale, ma quasi l’esito di una patologia: benigna sì, ma da monitorare medicalmente dal primo all’ultimo istante. Il parto sottratto alla sua naturalità, programmato per il giorno e l’ora più comoda ( deserte le maternità delle cliniche private a Ferragosto e Natale), sembra stranamente in contrasto con l’imperativo collettivo del rispetto della natura, che domina il nostro tempo. L’avversione agli Ogm e le trepidazioni per i ghiacciai del Polo e la foresta amazzonica dicono di un Occidente ansioso di tutelare l’ambiente naturale, di non traviare il creato nei suoi originari ritmi e equilibri. Questa tutela svanisce stranamente quando si parla dell’uomo, dai concepimenti in provetta fino ormai alla semplice riproduzione. Le madri che daranno ai loro bebè solo alimenti rigorosamente biologici e ' puri' trovano del tutto ovvio mettere da parte la natura per metterli al mondo. Per paura di un parto vissuto ormai come una rischiosa incognita? Per un’ansia di "non essere capaci" indotta dalla crescente medicalizzazione della gravidanza? O per una sorta di distacco culturale fra le donne e ciò che è onere carnale, fisico del mettere al mondo un figlio? La foto del ministro francese Rachida Dati, magrissima sui tacchi a spillo mentre torna in ufficio a cinque giorni dal parto ( cesareo e programmato), ha fatto il giro del mondo. È anche questo l’inizio magari inconsapevole di un modello di comportamento? Un figlio sì, ma controllando modi e tempi della gravidanza, e tornando efficienti al più presto, come fosse stata un’influenza. Pare quasi, l’avvento del parto chirurgico di massa o la mitizzazione della supermamma subito al lavoro, un lavorio di trasformazione su ciò che naturalmente è la maternità: l’invasione di un altro, sia pure figlio amato e però altro da sé, che cambia della madre il corpo, i ritmi, perfino i gusti. Che poi nascendo – in natura, come e quando vuole – occupa la vita di una donna e la trasforma profondamente. Ecco, è come se nel consenso alla soppressione di questa naturalità, nell’ansia di tornare ' come prima' in fretta, stesse una nuova opposizione a quel lasciarsi invadere e cambiare, che è un figlio. Fin dal primo giorno intervenendo con un bisturi, piuttosto che lasciarlo nascere quando è tempo, e quando vuole. Una maternità ' controllata', una riserva al consegnarsi allo straniero che viene. A lungo monitorato quanto a salute, sbrigativamente comandato a nascere, e magari rapidamente affidato ad altri, perché il lavoro viene prima. Una maternità in realtà plasmata su una cultura maschile ed efficientista. Ignara o ostile alla generosa bellezza di un femminile accogliere senza riserve la vita.