In questo grande pasticcio nazionale che è ormai diventato il caso Alitalia vi è in tutta evidenza un capro espiatorio designato: si tratta del cittadino-utente, da giorni (ma dovremmo dire da mesi) vessato ed esasperato, vittima eloquente del cupio dissolvi di pochi e dell'irresponsabile indifferenza di molti. Tutti, in questo pasticcio, hanno una porzione di responsabilità: i brasseurs d'affari che allestivano cordate alternative a Air France, i sindacati prigionieri di schemi massimalisti, i politici ansiosi di scaricare l'uno sull'altro il peso di un'eredità finanziariamente insostenibile e industrialmente in avanzato stato di necrosi quale è Alitalia. Eppure, a valle di questa catena di scaricabarile, ci sono centinaia di migliaia di cittadini italiani (ed anche stranieri, visto che l'Italia rimane " per ora " nazione eletta per scambi commerciali e mete turistiche), costretti a bivaccare negli aeroporti con lo sguardo appeso a muti tabelloni che annunciano la cancellazione di decine di voli ed il ritardo doloso di altrettanti. Non c'è dubbio, con questi scioperi bianchi, con queste calcolate astensioni dal lavoro per ferie o malattia, con questa minuziosa osservanza dei protocolli che di fatto fanno saltare i tempi tabellari di decollo, i piloti e il personale di terra che non si riconoscono nell'accordo siglato il 31 ottobre hanno inaugurato " come direbbe il sociologo Hans-Magnus Enzensberger " una sorta di guerra molecolare, un conflitto asimmetrico a bassa intensità che nemmeno si proclama tale (le aquile selvagge negano fortemente sia in corso uno sciopero) ma che è in grado di produrre danni rilevantissimi e soprattutto un disagio sociale diffuso, che è poi lo scopo ultimo di questa forma novella di conflitto urbano. Tutto ciò potrebbe ancora avere un senso (un raggruppamento sindacale conserva comunque la libertà di proclamarsi in disaccordo con un'intesa che reputa sbagliata), se la posta in gioco fosse soltanto la salvaguardia di un posto di lavoro o di un livello retributivo. Ma non è propriamente così. La posta in gioco " e gli irriducibili di Alitalia lo sanno benissimo " è la rinascita o viceversa la fine ingloriosa di una compagnia aerea già tecnicamente fallita e in procinto di rimpicciolirsi scaricandosi di dosso i propri debiti per riprendere un profilo internazionale nei prossimi anni. Debiti che, come d'abitudine, finiranno sulle spalle del bilancio pubblico, ossia del contribuente, visto che la Ue ha bocciato il prestito-ponte di 300 milioni di euro e la vecchia Alitalia dovrà far cassa " se mai ci riuscirà " per rimborsarlo. Ma il cittadino in queste guerre molecolari, conta pochissimo, pressoché niente. Ed qui si scorge la tipica cecità di ogni massimalismo, indifferente al bene collettivo, accecato dal proprio tornaconto. Come se non si sapesse che senza una nuova Alitalia, senza un vettore di profilo nazionale rinnovato e più snello non vi sarà alcuna possibilità di riassorbire gli esuberi annunciati ma viceversa avremo uno spezzatino rivendibile ai concorrenti europei da mesi in attesa di spartirsi quel che resta della compagnia di bandiera. Ma se le cose dovessero davvero andare così, a quell'epoca probabilmente non vi saranno più bivacchi negli aeroporti. E nemmeno aquile selvagge, perché saranno state lasciate a casa. A rimuginare sulla loro guerriglia perduta.