mercoledì 17 marzo 2010
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Altrove si discute, tra la gente si muore. Anche a Napoli. Si muore per mancanza di lavoro, per mancanza di pane. Salvatore Vivenzio, 59 anni, si è tolto la vita. Ha sempre fatto il meccanico, ma negli ultimi tempi il lavoro scarseggia; l’ultima riparazione – ha confidato a un amico – risale a due settimane fa. Poche ore dopo, a Nocera, nel Salernitano, è un quarantasettenne, in depressione per la perdita del posto di lavoro, a mettere fine ai suoi giorni. A Napoli la mancanza di lavoro è un morbo. Cronico ed endemico. Non è paragonabile all’influenza stagionale, ma a un cancro che ti si attacca addosso e non conosce cura. Senza lavoro un uomo sente di non essere più uomo. Chiede aiuto, cerca, spera, ma quando l’ultimo amico lo congeda con una pacca sulla spalla, spettri senza nome arrivano senza essere invitati. Questi nostri fratelli, disperati, alla vita hanno detto basta. Ieri sera in parrocchia. Una donna piange. Il marito, alcolista, è andato via di casa, lasciandola sola con sette figli da accudire. Muore di fame. Letteralmente. Una settimana fa le hanno tagliato la corrente elettrica. Piange nella casa che è anche sua, per un uomo che sa che le appartiene. In chiesa è presente un’impiegata dell’ufficio assistenza del Comune. Interpellata, dice che, per mancanza di fondi, il Comune ha sospeso ogni aiuto ai poveri. Sospeso. Termine elegante per dire che i poveri non sono benvenuti. È stata sospesa l’assistenza ai poveri e nessuno sa dire fino a quando. Care, vecchie chiese con le porte sempre aperte. Dove l’umana logica è stravolta e i poveri sanno di somigliare a Dio. Dove se è divino il dare, lo è anche il ricevere. Dove la mano tesa che chiede aiuto, arricchisce e dona gioia a chi ha il coraggio di aprire il cuore. Care chiese, dove Dio è così vicino all’uomo da farsi egli stesso Pane. Ci sono altre case cui un disoccupato può bussare. Anch’esse con le porte sempre aperte. Si aprono d’incanto appena un uomo bussa e gli danno da mangiare. Riempiono il ventre togliendo dignità. Permettono di vivere, ma senza libertà. Case brutte come prigioni e che in prigione spingono il malcapitato. Si continua a scrivere, anche in questi giorni, di mafia e di camorra. Esperti professori si chiedono perché nel nostro Meridione ha potuto attecchire, come gramigna velenosa, questo assurdo modo di vivere e pensare. Al di là di ogni legittima analisi, occorre onestamente ammettere che, almeno oggi, in certe regioni, stanche e maltrattate, il problema è da collegare alla mancanza delle più elementari forme di sussistenza. Dispiace dirlo, ma non per tutti è vero che l’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro. Non sempre è vero che la bandiera, che amiamo, ci avvolge e ci riscalda tutti come figli prediletti. Prepariamo pure le manifestazioni per l’anniversario dell’Unità d’Italia, ma riconoscendo umilmente che per tanti essa non è madre. A chi chiede senza trovare aiuto; a chi, per gridare la sua rabbia, rimane solamente una corda da legarsi al collo, la Patria appare distratta, negligente, estranea. Si arriva in ritardo. Si arriva sempre dopo. Si giunge per costatare la morte, poche volte per proporre un rimedio efficace e serio. La corda al collo di Salvatore, il colpo di pistola alla tempia dell’altro sventurato, sono il grido dei poveri che non hanno più parole. Poveri senza voce. Poveri sui cui dorsi hanno arato i ricchi e gli imbroglioni. Ricchi più poveri dei poveri cui hanno rubato il pane. Chiediamo tutti perdono ai poveri. A quelli che bussano alla porta della chiesa; a quelli, ingenui, incoscienti, che stanno per gettarsi nella maledetta trappola di gente che continuiamo a chiamare camorristi; e, soprattutto, a chi, incapace di piangere e sperare, ha smesso per sempre di lottare.
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