Qualcosa di particolarmente serio deve aver convinto Giorgio Napolitano ad anticipare il suo intervento sulla situazione politica e istituzionale del Paese. Un intervento che aveva preannunciato otto giorni fa in Turchia e che molti osservatori attendevano per i tradizionali incontri augurali natalizi con le alte cariche dello Stato e la stampa accreditata. Invece ieri il presidente della Repubblica ha «sentito il bisogno» (proprio così si è espresso) di pronunciarsi subito, quasi temesse che ulteriori indugi potessero rendere meno efficace o, peggio ancora, ormai inutile la sua iniziativa. È molto probabile che i livelli dello scontro sulla giustizia e le riforme, le voci sui possibili o paventati nuovi provvedimenti della magistratura a carico del premier, le imminenti proteste di piazza, le stesse ricorrenti fibrillazioni all’interno della maggioranza abbiano indotto il Quirinale ad affrettare i tempi. Sull’accelerazione devono aver influito di sicuro anche le notizie lasciate filtrare dal vertice del Pdl di giovedì sera, con le evocazioni belliche e le accuse a una parte delle toghe italiane (definita «tanto esigua quanto dannosa» nel documento finale) di voler far cadere il governo. Lo stesso vale per altri passaggi molto espliciti sottoscritti dall’ufficio di presidenza, in cui si parla di equilibrio «completamente saltato» tra i poteri e gli ordini statuali e di «peso abnorme» acquisito da giudici e pm nella dialettica democratica. Ne è scaturito un breve statement , per usare un’espressione familiare al Colle, in quattro punti, che domandano e meritano attenta meditazione. C’è anzitutto l’invito a smetterla con la drammatizzazione delle tensioni tra partiti e soprattutto tra chi ricopre «responsabilità costituzionali». L’esortazione appare rivolta in primo luogo a Palazzo Chigi e dintorni. Dove però dovrebbe suonare più gradita la successiva affermazione, secondo cui quando un governo ha la fiducia della maggioranza e poggia sulla «coesione » degli alleati che insieme hanno vinto le elezioni, «nulla» (nemmeno un avviso di garanzia o una condanna in primo grado?) può abbatterlo. Segue – terzo punto – l’esortazione ad autocontrollarsi nelle sortite pubbliche, rivolta sì erga omnes , ma con un richiamo mirato, e stavolta davvero severo, agli operatori della giustizia, affinché restino «rigorosamente » nei limiti delle loro funzioni. Non stupisce che, nel coro dei consensi piovuti sulla mossa di Napolitano, si sia distinto l’ex pm Antonio Di Pietro, con la sua richiesta di non zittire i magistrati. E che il sindacato della categoria, l’Anm, si sia messo sulla difensiva, dichiarandosi vittima di aggressione. Infine, quarto punto, c’è il rinvio alla centralità del Parlamento, cui spetta, «in un clima più costruttivo», l’elaborazione delle riforme necessarie anche a riequilibrare in modo corretto il rapporto fra politica e giustizia (che dunque viene apertamente riconosciuto bisognoso di messa a punto). Nel complesso, l’esternazione del capo dello Stato presenta tutte le caratteristiche per conseguire lo scopo che si prefigge: è franca ed esplicita nell’individuare i nodi, netta e incisiva nell’indicare le vie d’uscita, dà, come si usa dire, a ciascuno il suo. Evita perfino di calcare a sua volta i toni, per esempio sui rischi, per altro a tutti evidenti, che il Paese sta correndo, se l’interminabile «spirale» delle contrapposizioni non si arresta. Ma è chiaro che molto dipenderà dal modo in cui, al di là dei consensi a parole, i protagonisti dello psicodramma nazionale sulla giustizia raccoglieranno l’appello a smetterla una volta per tutte. E a passare dalle inutili parole di guerra alle concrete azioni riformatrici. Sono esortazioni e auspici più volte espressi dal Colle, ma anche da quanti condividono con Giorgio Napolitano una sincera premura per il bene dell’Italia. Venti giorni fa, il presidente della Cei Angelo Bagnasco, nell’assemblea dei vescovi di Assisi, ha invitato a superare l’ormai invivibile clima «di sistematica e pregiudiziale contrapposizione » ed a promuovere un «disarmo» ben più fecondo di risultati, rispetto a una «prassi più bellicosa, che è anche la più inconcludente ». E un analogo appello a «deporre le armi», sempre da Assisi, è venuto domenica scorsa dal Segretario di Stato vaticano Tarcisio Bertone.