giovedì 5 novembre 2009
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La disciplina economica non è una scienza sperimentale. Da qualche tempo, però, si moltiplicano le analisi economiche che utilizzano esperimenti ' in vitru' come la fisica, la chimica e la biologia. Nei giorni scorsi, proprio mentre la stampa pubblicava gli appelli dell’Ue e di Bankitalia affinché nel nostro Paese venga aumentata l’età 'legale' per andare in pensione, l’Università di Monaco di Baviera pubblicava un’analisi empirica (CEsifo working paper n.2752) da cui risulta come in Germania – dove tale aumento è stato approvato per legge – il sapere di essere 'costretti' ad andare più tardi in pensione ha inciso negativamente sulla produttività del lavoro delle classi di età meno giovani. Non sta a noi entrare nelle specifiche dell’analisi. È un’indicazione, però, di come il problema sia complesso. Inoltre, in Italia la previdenza ha problemi più gravi: l’aumento dell’età effettiva di pensionamento si sta verificando naturalmente dato che il sistema contributivo e i meccanismi d’indicizzazione sono incentivi forti a restare sul mercato se non si vuole essere indigenti nell’ultima fase dell’esistenza terrena. Ciò vuol dire non toccare nulla? Niente affatto. La spesa previdenziale sta avanzando al 5% l’anno mentre il Pil sta subendo una contrazione tale che, solo nel 2014 si sarà tornati ai livelli del 2007. Mentre la riforma del 1995 presupponeva un aumento annuo del Pil dell’1,5%, tra il 1996 ed il 2007 abbiamo avuti incrementi medi dello 0,8% l’anno e successivamente un tracollo da cui usciremo dopo sette anni di vacche magre. La previdenza ora assorbe il 15% del Pil; se non si interviene, nel 2020 ne assorbirà il 20% togliendo risorse a investimenti, a scuola, sanità, sicurezza interna, ambiente. Attorno al 2020, poi, andranno in pensione le prime leve a cui si applica in toto il meccanismo contributivo: i loro assegni saranno circa la metà dell’ultimo stipendio. All’orizzonte, c’è una fascia di anziani che si ritroverà a basso reddito (molto inferiore di quello dei loro padri e zii) se non avrà accumulato privatamente capitale durante la vita attiva. All’inefficienza (spesa pensionistica troppo elevata rispetto alle altre esigenze del Paese) si aggiunge l’iniquità generazionale e la probabile esigenza di dovere aumentare la spesa per l’assistenza. Si può evitare questo scenario? Una soluzione ipotizzabile, a mio avviso, potrebbe fare perno su questi punti: 1) Ridurre drasticamente il periodo di transizione previsto dalla riforma Dini, la principale causa di inefficienza e di iniquità. In Svezia si è fatta una transizione analoga – da 'retributivo' a 'contributivo' in tre anni 1996-99 – da noi se ne sono previsti 18 (per le pensioni di reversibilità si arriva a circa 25-30). Siamo già in grande ritardo: si dovrebbe stabilire il 'contributivo' per tutti ('pro quota' per coloro in impiego prima del 1995) dal primo gennaio 2010. 2) Mantenere flessibilità di uscita, ma rendere effettiva quella che gli statistici chiamano l’equivalenza attuariale (ossia, ottieni tanto quanto hai versato in funzione della aspettativa di vita per il tuo sesso e la tua fascia di età) e consentire, se si vuole e se si è in grado, di restare al lavoro senza limiti di età (come negli Usa) oppure sino a 70 anni (come nei Paesi scandinavi delle flexsecurity). 3) Rivedere i parametri sia per il calcolo delle prestazioni sia per la loro indicizzazione. Nell’Europa del futuro, sarà possibile accettare anche un forte taglio del reddito al momento in cui si va in pensione (poiché si è già comprata la casa e si sono sistemati i figli) ma occorre un reddito crescente a partire dai 75 anni di età per fare fronte a cure, assistenza e accompagnamento per i non autosufficienti. 4) Riformare la normativa sui fondi pensione al fine di concentrare le risorse in pochi fondi robusti e in grado di diversificare gli impieghi e non in oltre 700 fondi lillipuziani che si limitano a comprare titoli di stato (aggravandone il costo del collocamento) o che sono destinati a sparire alla prima tempesta finanziaria.
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