giovedì 3 settembre 2009
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Si dice che la necessità aguzza l’ingegno. A volte forse l’aguzza troppo e l’ingegno finisce con il forare le pareti del buon gusto. Ma tant’è. C’è la crisi, e ogni mezzo pare buono per trovar lavoro. E così un importante catena di centri commerciali del Varesotto ha pensato bene di mettere dieci posti di lavoro in palio in una specie di lotteria. Se acquisti più di trenta euro tra quegli scaffali, invece di rifilarti la solita batteria di pentole o il tostapane ultimo grido o altri tipi di gadget per cui abbiamo visto coi nostri occhi accapigliarsi frotte di massaie imbizzarrite, ecco che il "sciur padrun" (o i soci padroni) della catena ti offrono la possibilità di partecipare a un sorteggio. E in palio, appunto, un anno di contratto di lavoro presso la stessa catena come addetto alla vendita al banco, 1.200 euro al mese. I clienti partecipano. Magari pensando ai figli o ai nipoti che è difficile sistemare. Qualcuno lamenta invece che si tratti di una trovata pubblicitaria, e altri, come i sindacati, criticano la strada per l’assunzione un po’ irrituale. Come dire che i normali canali di incontro tra domanda e offerta di lavoro sono inutili. E questo deve far pensare i sindacati stessi e i vari attori in campo in questo settore ora delicato e vitale. In questa vicenda c’è un lato simpatico e giocoso, ma si avverte il sottofondo amaro dovuto alla circostanza in cui matura, e alle corde di tensione sociale che va a toccare. È vero che ogni imprenditore è libero di dare il lavoro a chi vuole, che non è tenuto come lo sono gli enti pubblici a graduatorie, concorsi eccetera. Ma la scelta di offrire il lavoro attraverso una lotteria da un lato rischia di svilire la figura del lavoratore – il cui unico merito per accedere al lavoro diviene quello di avere il biglietto fortunato –, dall’altro giustifica il sospetto che i dieci posti (evidentemente previsti per necessità aziendale) siano stati trasformati da risorsa sociale in trovata pubblicitaria. Il che è un poco speculare sulla necessità di tanti. Il lavoro infatti – al contrario dei premi di tutte le lotterie, comprese quelle milionarie – è un’esigenza primaria e un diritto, non un bene voluttuario, non un "colpo di fortuna". Trasformarlo in una botta di fondoschiena significa fare un passo in più verso lo svilimento della sua natura. Niente di grave, s’intende. Il problema principale non è l’iniziativa del supermercato, ma il fatto che il contesto in cui ci troviamo, per così dire autorizza a pensare anche cose di questo genere. Dopo averle pensate, però, e prima di attuarle, forse una riflessione supplementare non avrebbe guastato. Meno pubblicità, certo, ma forse anche un minor deprezzamento, un minor avvilimento e, diciamolo, una minor desacralizzazione di una cosa così importante come il posto di lavoro. Se avessero abbinato la comunicazione della necessità di assunzione dei dieci lavoratori in altro modo, avrebbero dato un segno di fiducia in questi tempi travagliati, senza cercare di lucrare su un bisogno che anche nella Padania è vivissimo. Non penso che assisteremo ora a un fiorire di roulette, di bingo o di gratta e vinci con in palio posti da imbianchino e da muratore, così come non sono molte le aziende che in questo momento aprono le porte a dieci nuove assunzioni. Ma la cosa peggiore che può capitare a questa già feritissima Italia è che il lavoro diventi una specie di "fortuna", una manna che piove dal cielo costellato di neon di qualche ufficio promozione o marketing. Il lavoro, per chi ce l’ha e per chi lo sta cercando, deve restare necessità e una conquista da adempiere nella rete delle relazioni, degli strumenti sociali e della comunità. O ci si potrebbe trovare ognuno solo con il proprio biglietto numerato, a sperare che esca sulla ruota della fortuna messa in moto da qualche padrone generoso.
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