«Una cosa simile, non l’avevo mai vista». Le poche parole pronunciate dal questore di Verona uscito dalla villa di San Felice Extra dicono come anche il capo della polizia di una grossa città, con anni d’esperienza sulla malavita, resti ammutolito davanti a tre bambini uccisi in pigiama, sul punto di andare a dormire, dal loro stesso padre. Uccisi insieme alla madre nella bella casa borghese di un professionista affermato, nel cuore benestante del Nord Est, mentre la tv in una sera come tante è accesa e la moglie guarda la tv con accanto il figlio più piccolo, che a letto non vuole andare. Lo hanno trovato, Jacopo, tre anni, riverso a terra accanto ai soldatini con cui stava giocando. Forse, speriamo, non ha saputo niente, preso dalla sua fantastica battaglia: un colpo secco, e poi il buio. E gli altri due, i più grandi, ritrovati nel letto con le lenzuola già rimboccate? Forse come tutti i bambini contavano i giorni al Natale, e già andavano preparando una garbata ma circostanziata lista di sogni.Più niente. L’irruzione del nulla in una casa tranquilla: dove tutto agli occhi dei vicini pareva felice e in ordine, e i bambini – tre, di fila, in pochi anni, a testimonianza di un progetto lieto e deciso – andavano a letto dopo aver lavato i denti, e augurato la buona notte. Per questo, perché la morte, e questa morte, stordisce come una bomba in una casa che sembra felice, il questore se ne è uscito da quella villa a spalle curve e a capo chino: la morte, con quella faccia, non l’aveva mai vista. E nemmeno questa volta si può accusare banditi o predoni venuti dal buio, né invocare ronde, e ordine nelle strade. La porta, certo come ormai ovunque blindata, in quella villa non è stata toccata. Il male era dentro, ed è esploso dilaniando ogni cosa.Ora ci si domanda, si investiga: si cercano fra amici e attoniti vicini tracce di liti, di gelosie, o di rovesci economici improvvisi. O si ipotizza in quell’uomo tranquillo una depressione psicotica, un abisso invisibile sotto i modi educati del professionista borghese. Ma, per qualsiasi strada sia arrivato quel padre a decidere di estrarre dai cassetti le pistole, qualsiasi razionale ragione sembra un nulla davanti a una simile strage. Un solo nome in realtà si può dare alla forza atroce che a Verona l’altra notte ha divelto ogni cosa. Soltanto una disperazione possente, totale, tracimante dalle profondità dell’io come un’onda di piena, può spiegare tanta volontà di morte. Se anche si scopriranno i motivi che hanno sconvolto quell’uomo, è probabile che tra quei motivi e ciò che è stato resterà uno iato, un salto razionalmente incolmabile. Solo dentro un’ottica di disperazione, lucida o sorta in una accecata follia, quei cinque spari obbediscono a una lugubre logica: se il mondo e la nostra vita sono sbagliati irrimediabilmente e senza alcuna speranza, e siamo totalmente soli, se è così, allora occorre morire, e strappare a un inutile strazio i propri figli. Per gli psichiatri quello di Verona è "suicidio allargato", cioè un gesto, nella mente di chi uccide, di assurdo amore: vi libero dalla sofferenza, non vi lascio qui a soffrire. La perversione di questo "amore", sta nell’aver cancellato la speranza. Sta, nell’incalzare di disgrazie vere o nel martellio dell’ossessione, nel dare retta alla disperazione. Nel cederle, e non opporle più alcuna ragione logica e nemmeno il semplice istinto vitale. L’humus del massacro di Verona è la resa a un nemico che insiste, argomenta, rode, tarla: "non c’è alcun senso, non c’è alcun bene". E poiché in tanti sentiamo dentro a tratti questo mormorio gelido, quei tre bambini e la madre e il padre, morti in una casa che pareva felice, ci ammutoliscono. E anche chi a fatica lo ricorda, può ritrovarsi a ripetere in sé, come d’istinto, le parole della più antica nostra preghiera. Quella che invoca, ostinata, "liberaci dal male".