L’obiettivo è dichiarato: fondare una nuova partnership tra Europa e Africa. Ma le parole chiave del summit che si apre oggi a Bruxelles tra Unione Europea e Unione Africana suonano purtroppo come già sentite, e rischiano perciò di alimentare un certo scetticismo attorno a questo evento che, a 5 anni dal precedente, torna come un rito per alti funzionari e capi di Stato. Di riti abbiamo bisogno, come di incontri tra chi guida Paesi totalmente interdipendenti. Ma dopo una pandemia non ci possiamo permettere di lasciar passare questa nuova edizione senza verificare quel che si è riusciti a fare e quel che resta da compiere. Una verifica non più rinviabile: dobbiamo osservare ciò che è già in atto, valutare le buone pratiche e i fallimenti, per comprendere in che cosa siamo ancora manchevoli, e dove invece stiamo agendo con efficacia.
All'osservazione della realtà, al riconoscimento di ciò che vale, un contributo essenziale viene dalle organizzazioni della società civile: per loro natura riducono le distanze, sanno costruire relazioni tra mondi altrimenti separati, mettono in rapporto i bisogni del singolo con quelli della sua comunità, sanno far giungere ai tavoli di chi governa la voce di chi sta a terra, mostrando le risorse valide su cui contare.
E che cosa hanno riscontrato i soggetti della società civile in questi anni? Ad esempio che sta funzionando l’attenzione che la cooperazione europea dedica a favorire in Africa il rapporto con le imprese, sia locali sia internazionali; che il mix di prestiti e finanziamenti a fondo perduto giova nei Paesi che vogliono combattere le diseguaglianze; che gli investimenti nell’educazione di base (dagli asili alla scuola secondaria e poi terziaria) confermando come via privilegiata per far uscire generazioni intere nei Paesi poveri dalla 'trappola della povertà'; che la formazione professionale pensata in relazione alla domanda mercato del lavoro è praticabile e cambia le vite di persone e comunità in contesti dove arrivano migranti e rifugiati; che lo sviluppo di piccole e medie imprese, là dove si pone particolare attenzione a quelle sociali e cooperative , continua e resiste alla prova dei mercati e della concorrenza…
Perché una nuova alleanza tra Unione Europea e Unione Africana non sia solo enunciata, ma attuata, servono la conoscenza e la valutazione di queste esperienze. Ed esse ci convincono che non è possibile pensare lo sviluppo se non integrando simultaneamente interventi economici con interventi sociali, piani sanitari con interventi di tutela dell’ambiente.Ma anche che non ha senso costruire infrastrutture senza passare dal coinvolgimento delle comunità che le useranno. O disegnare piani vaccinali, senza coinvolgere singoli, comunità, istituzioni locali. Ma vorrei spingere la provocazione ancora più in là: noi europei dovremmo andare in Africa, a imparare. Ora che il nostro Paese sta discutendo su come usare i fondi del Pnrr, ora che Comuni e Città metropolitane temono di non essere capaci di coprogrammare e di perdere gli aiuti promessi, ecco che – sembra un paradosso – possono guardare a casi concreti di progetti di cooperazione allo sviluppo in Africa. Qui si impara che bisogna superare la logica dei silos se si punta allo sviluppo, che non si può mai separare il bene della singola persona da quello della famiglia-comunità a cui appartiene: va ridisegnata l’urbanistica di un quartiere di periferia? Ebbene si fa coinvolgendo gli abitanti nella co-progettazione; vanno aiutati profughi e rifugiati? Si creano programmi che sostengano insieme chi accoglie e chi arriva. Uno sviluppo sostenibile a tutte le latitudini necessita di piani a lungo termine, tagliati su misura. La Ue resta uno dei donatori più grandi e generosi di aiuti per molti Paesi africani: se provasse a chinarsi e a dare ascolto a quelle espressioni della società civile che possono riferire quel che funziona sul terreno, si sorprenderebbe nello scoprire quanto di buono può ulteriormente fare per i destinatari delle sue iniziative e quanto essa stessa ha da guadagnarci.
Segretario generale Avsi