giovedì 24 luglio 2014
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Torniamo a distanza di qualche giorno a indicare una non piccola serie di incongruenze e di problemi aperta dalla decisione a sezioni unite della Corte di Cassazione con cui si è stabilito che un’eventuale sentenza ecclesiastica di nullità matrimoniale non potrà più essere delibata, cioè non potrà più – come invece avvenuto dal 1929 a quel momento – produrre effetti civili, qualora dopo il matrimonio canonico la convivenza tra gli sposi sia durata più di tre anni.È difficile dire se la Suprema Corte abbia considerato davvero tutti gli effetti della decisione assunta con due sentenze contestuali, a cominciare da quelli più paradossali o addirittura perversi, come nel caso di un padre e di una figlia, invalidamente sposati, che trascorso il triennio di convivenza dovrebbero (o potrebbero!) continuare a essere uniti in matrimonio. Lo stesso dicasi nei casi in cui la triennale convivenza sia seguita al matrimonio celebrato da un bigamo o da un soggetto condannato per omicidio del coniuge dell’altro. Giova ricordare che in tali casi la convivenza – qualunque ne sia la durata – non sana il matrimonio civile, che può essere dichiarato nullo senza limiti di tempo. Seguendo invece la "logica" della Cassazione, non potrebbero essere delibate in Italia sentenze canoniche di nullità matrimoniale fondate su tali gravi cause, se vi sia stata l’accennata convivenza di tre anni. Si tratta, insomma, di una sentenza criticabile, giuridicamente incongruente e che arreca un duplice, grave vulnus. Il primo è al Concordato, divenuto con l’esecuzione legge interna italiana e garantito dalla copertura costituzionale dell’art. 7. Perché l’impegno assunto dallo Stato in materia è quello di rendere esecutive – e sia pure a certe condizioni – le sentenze canoniche matrimoniali non di "annullamento" (che non esiste in diritto canonico), ma di "nullità", e come sa ogni studente del primo anno di Giurisprudenza il mero decorso del tempo non può mai sanare una nullità.Il secondo vulnus è alla Costituzione, perché la Cassazione non pone – come logico – in successione il matrimonio-atto e il matrimonio-rapporto, che dal primo nasce, ma li mette in parallelo, dando per giunta un primato al secondo sul primo. Ma non dice la Carta fondamentale, all’articolo 29, che la famiglia – cioè il matrimonio-rapporto – è fondata sul matrimonio, per cui non c’è famiglia se non c’è matrimonio?A ben vedere, con la sua decisione, la Cassazione ha "creato diritto"; in sostanza ha riconosciuto come famiglia il rapporto non nascente da valido matrimonio: una questione di cui si discute da tempo e che peraltro spetta al legislatore sciogliere.Le sentenze in questione giungono buon ultime di un tormentone che dura da anni, provocato da un problema serio e meritevole della massima attenzione: quello della tutela economica della parte più debole nel caso di matrimonio canonico dichiarato nullo. Il problema nasce da una inadempienza dell’Italia, che non ha mai provveduto con una apposita legge, nonostante i ripetuti inviti, anche di parte vaticana. A questo punto è da domandarsi se la "giurisprudenza creatrice" non sarebbe stata più utilmente utilizzata seguendo la via maestra di prevedere forme di tutela economica per la parte più debole del matrimonio dichiarato nullo, magari sul paradigma di quanto previsto dalla legge sul divorzio e tenuto conto della diversità di situazioni, anziché la via tortuosa e irta di scogli, che porta a ignorare un istituto ben conosciuto anche al diritto civile, qual è appunto quello della nullità.Occhio poi alla eterogenesi dei fini. Perché la Cassazione, non riconoscendo civilmente le sentenze ecclesiastiche relative a matrimoni caratterizzati da una convivenza superiore a tre anni, intende tutelare il rapporto familiare; ma l’ esito sarà che gli interessati ricorreranno al divorzio civile, istituto che – come noto – è la tomba del rapporto.
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