Per l’economia e la finanza mondiale che da molti mesi e con una accelerazione nelle ultime settimane apparivano allo sbando, prossime a un collasso globale simile o forse addirittura peggiore di quello degli Anni Trenta, il Piano Obama è stato accolto con vastissimo consenso. A giudicare dallo spettacolare rimbalzo delle Borse (+20%, in media, in quattro sedute), non una «zattera di salvataggio», ma qualcosa di molto simile a una miracolosa medicina perfusa in un corpo malato. È arduo spiegare quel che sta accadendo; ancora di più valutare, in prospettiva, la bontà della ricetta. Infatti, per l’ennesima volta nella storia del moderno capitalismo, economia ed economisti hanno mostrato i loro limiti. Incapaci di prevedere l’arrivo del ciclo negativo. Al contrario, s’erano cullati nell’illusione dello sviluppo ininterrotto, della crescita illimitata. Sino a determinare, con orgogliosa e diabolica sicumera, il formarsi di una Babele cartacea. Dove i soldi, attraverso sofisticati giochi di prestigio, parevano moltiplicarsi all’infinito. In che cosa consiste, sfrondato dagli orpelli tecnicistici, il Piano Obama? In sintesi estrema: lo Stato americano, stanziando per ora 500 miliardi di dollari (mille in prospettiva), presterà fondi agli investitori privati perché possano acquistare (mettendo in proprio solo il 7% della cifra) dalle banche in difficoltà (cioè da quegli organismi in cui è maturata la crisi) i cosiddetti «titoli tossici»: quei crediti, di ogni natura, divenuti carta straccia o quasi. Così, in teoria, liberati dalla zavorra, dalle scorie da loro stessi prodotte con ogni sorta di follie speculative, gli Istituti dovrebbero ritrovare la strada maestra e virtuosa: raccogliere il risparmio e con questo finanziarie imprese, consumi, famiglie. Scenario che, almeno in prima battuta, si è portati a condividere. Salvo su un punto: se la medicina era a portata di mano, perché non prima? Di fronte a questa elementare domanda, spuntano altri interrogativi. Certo, il fatto che il presidente Usa sia intervenuto in presa diretta, giocandosi la faccia, rassicura e conforta. Genera fiducia. E la fiducia è essenziale per rimettersi in moto, evitando che ciascuno, dagli Stati (con l’autarchia e il protezionismo) agli individui (nascondendo i risparmi nel materasso), cada nella spirale dell’egoismo. In questo, Obama ha sicuramente segnato un punto. Ma se lo Stato entra nel «sistema», una volta realizzato il salvataggio, non si trasformerà, come la Storia ammonisce, in un cieco burocrate frenatore di ogni spinta propulsiva? Quel che si è verificato in passato con le economie socialiste o regolate, non va dimenticato. Andando oltre, con domande solo in apparenza semplicistiche. Da dove vengono le montagne di miliardi stanziati per i salvataggi e chi, in ultima istanza, ne beneficerà? Qui si entra in terreno minato. Lo Stato, i soldi per fronteggiare la crisi, li può reperire aumentando il debito, ma per rientrare poi ha solo due modi: aumentare massicciamente il prelievo fiscale (il che si tende a escludere), oppure fare girare i torchi. Ovvero stampare banconote. In Gran Bretagna sta già avvenendo; ed ha subito provocato un forte deprezzamento della sterlina. Ma gettando enorme masse di «liquido» nel braciere, si finisce con alimentare la fiamma dell’inflazione. Un rogo tristemente noto nella Storia: brucia i debiti ma anche i risparmi. E questo timore, sia pure in prospettiva, comincia ad aleggiare fra gli osservatori. Dato atto a Obama di avere compiuto un gesto di rottura, constatato il gradimento dell’Alta Finanza, delle Borse, permangono dunque gli interrogativi: uno sopra tutti: chi pagherà la fattura della crisi? Vediamo che le banche vanno azzerando la remunerazione dei risparmi, e i salari sono bloccati e le aziende licenziano. Mentre gli Stati sono orientati verso politiche di spesa facile. Alla fine resteremo noi, come contribuenti; o tosati da un’inflazione virulenta. Certo, a pensare male si fa peccato, però...