Hanno vinto i popolari europei. La tornata elettorale che ci siamo appena lasciati alle spalle si presta a letture diverse, ma ci sembra giusto partire da questa. In un’Europa percorsa da scosse telluriche che sono arrivate sino a Bruxelles e hanno 'lesionato' un po’ tutti i palazzi di governo nazionali (con l’eccezione di Italia, Francia e – per certi versi – Germania) salta infatti agli occhi il rafforzamento nei numeri e nel ruolo del Ppe. Nonostante il massiccio astensionismo e malgrado i risultati inanellati da raggruppamenti di estrema destra (spesso di preoccupante matrice xenofoba), il rieletto Parlamento di Strasburgo avrà ancora una volta il suo saldo baricentro in quel grande gruppo moderato e riformatore che laicamente si richiama anche agli ideali del cristianesimo sociale. Si tratta di un’affermazione tanto più significativa a fronte dello smottamento, in qualche caso drammatico, registrato dalle forze che fanno riferimento al socialismo europeo e dal notevole ridimensionamento della pattuglia della sinistra radicale. Un segnale – o, meglio, un insieme di segnali – nella direzione di una nuova stagione politica oggettivamente complicata eppure potenzialmente caratterizzata, sul piano delle iniziative europarlamentari, da un maggiore equilibrio e da una minore propensione a sollecitare in modo eccentrico e persino avventuroso la realtà e le sensibilità dei popoli dell’Unione. Spostando lo sguardo in casa nostra, emergono invece tre dati fondamentali: uno scarto vistoso (e non poco condizionante nei giudizi) tra le attese della vigilia e il responso elettorale, una sostanziale stabilità del quadro già emerso nelle elezioni generali che un anno fa videro nettamente vincitore il centrodestra e un evidente trasferimento a livello amministrativo locale degli attuali rapporti di forza nazionali. L’attitudine – non solo, ma soprattutto italiana – di raffrontare l’esito di un voto con la realtà virtuale proiettata da sondaggi e slogan propagandistici ha fatto sì che i due principali risultati della consultazione europea il 35,3% del Pdl (-2,1 rispetto alle politiche, +1,7 rispetto alle europee del 2004) e il 26,1 del Pd (-7,1 e -4,9) non venissero valutati per quel sono, ma per quel che avrebbero potuto essere: il 43-45% vaticinato da Berlusconi come premessa a grandi riforme da compiere anche col solo apporto dell’alleato leghista, il 25% indicato come soglia di tenuta dalla dirigenza democratica. Un autogol del 'grande comunicatore' di Palazzo Chigi, anzi un assist al segretario Franceschini infatti occupatissimo a segnalare vere o presunte sconfitte altrui per non far emergere quella sonoramente incassata dal Pd. Ma se in politica le parole restano e pesano, è con i fatti che bisogna misurarsi. Stiamo perciò ai numeri che testimoniano come sia l’alleanza Pdl-Lega (passata dal 45,7% del 2008 al 45,5% di oggi) sia l’opposizione PdIdv-Radicali (ieri al 37,6%, oggi al 36,5%) mantengono in leggero calo un’analoga forza complessiva. Un anno di governo e di legislatura in condizioni difficili e una campagna elettorale segnata da incresciose polemiche gossip- velinare hanno, dunque, cambiato soltanto gli equilibri interni agli schieramenti. Nel centrodestra risalta un po’ di più il ruolo (che ora è meno lombardo-veneto) della Lega e nel centrosinistra si fa sentire quello dell’Italia dei valori (che adesso pesa il doppio). L’una e l’altra, però, appaiono strutturalmente legate ad alleati tre volte più grandi. Senza il Pdl la vocazione governativa di Bossi e dei suoi non potrebbe svilupparsi, senza il Pd l’opposizione dipietrista sarebbe inevitabilmente velleitaria. Il primo turno amministrativo aggiunge a questo scenario la conferma del crescente radicamento territoriale (ma non dell’autosufficienza) del Pdl, della discesa al centro della Penisola di una Lega indotta a una riscoperta italianità, della difficoltà del Pd a interpretare importanti fasce di elettorato popolare nel Nord e nel Sud d’Italia e del bivio che sta davanti all’Udc, capace di tenere in solitudine una sua stabile base d’opinione (+0,9 in un anno) ma sfidata a darsi, prima o poi, anche a livello nazionale la stessa capacità di coalizione che mette in campo nelle realtà locali. Per tutti – a Roma e nelle province d’Italia come a Strasburgo – l’obbligo è insomma di misurarsi con la realtà. A cominciare dalla realtà dei cittadini, quelli che nelle urne hanno detto la loro e quelli che devono essere motivati a farlo di nuovo.