Per capire e rivivere, qui ed ora, il grande messaggio delle “dieci parole” donate da Elohim-YHWH, ci sarebbe bisogno di una
cultura dell’alleanza, di una civiltà delle promesse fedeli, capace di patti, che riconosca il valore del “per sempre”. Una grande nota del nostro tempo è invece la trasformazione di tutti i
patti in
contratti, una nota che risuona sempre più forte fino a coprire tutti gli altri suoni del concerto della vita in comune. Lo vediamo con estrema nitidezza nell’ambito dei rapporti familiari, ma anche nel mondo del lavoro, dove le relazioni lavorative che nel XX secolo erano state concepite e descritte ricorrendo al registro relazionale del patto, oggi si stanno sempre più appiattendo sul solo contratto. Come se la moneta potesse compensare sogni, progetti, attese, la fioritura umana, soprattutto quella dei giovani. Stiamo smarrendo il principio alla base di ogni civiltà capace di futuro: che ai giovani va dato credito, va donata fiducia quando ancora non la meritano perché non la possono meritare. Credito e fiducia ricevuti, che domani potranno e dovranno a loro volta ridonare ai nuovi giovani. Il lavoro cresce e vive in questa amicizia e solidarietà attraverso il tempo, si nutre di questa reciprocità intertemporale. Senza questa staffetta generosa tra generazioni, il lavoro non nasce o nasce male, perché gli manca l’humus della gratuità e dei patti. Ma non lo capiamo più, e così ci stiamo perdendo. Forse avremmo bisogno di rivedere la nube e il fuoco, riudire il tuono dell’Oreb; avremmo bisogno dei profeti, dei loro occhi, della loro voce. Mentre Mosè ascolta le dieci parole dentro la nube del Sinai, il popolo “vede” i segni della presenza di Dio, e ha paura: «Allora dissero a Mosè: “Parla tu a noi e noi ascolteremo; ma non ci parli Dio, altrimenti moriremo!”». (Esodo 20,19). E Mosè: «Non abbiate paura» (20,20). Ritornano qui, alle pendici del monte, quelle stesse parole – «non abbiate paura» – che aveva pronunciato nei pressi del Mare, quando il popolo si sentiva schiacciato tra gli egiziani e il muro delle acque (14,13). I profeti sono necessari sempre, ma sono indispensabili nei tempi delle paure collettive. Fuori dall’Egitto, il popolo si sta abituando un po’ alla volta all’idea di un Elohim diverso, che lo ha liberato dalla schiavitù, che lo ama ed è misericordioso. Ma il processo è lungo e difficile, perché l’esperienza religiosa dell’uomo antico, inclusa quella dei popoli circostanti Israele, è primariamente quella della paura, del timore, della colpa. Occorre sacrificare agli dei gli animali migliori e offrire loro le primizie perché plachino la loro ira e siano benigni. YHWH sta offrendo al suo popolo un’altra esperienza religiosa, un altro “timore di Dio” (20,20), che da paura delle divinità diventa sempre più “timore di uscire dall’alleanza con YHWH”. La rivelazione di un altro volto di Dio è stata un processo lento e accidentato, che si è svolta nel tempo e nello spazio concreti. Questa dimensione storica e geografica della Torah emerge con grande forza e chiarezza nel cosiddetto “Codice dell’Alleanza”, quella lunga e mirabile raccolta di norme, raccomandazioni, leggi, una sorta di commento, di applicazione e concretizzazione del decalogo. In questi capitoli dell’Esodo si sente l’eco (a tratti nitidissima) delle leggi dei popoli semitici, del codice di Hammurabi, e della grande sapienza popolare maturata nel dolore e nell’amore della gente lungo i secoli e i millenni. Quel popolo dal Dio diverso, l’Elohim che parla e non si vede, volle porre quelle parole di sapienza-dolore-amore a corredo delle dieci parole di YWHW, donando loro una dignità altissima. Volle con quelle parole terrestri rispondere al dono delle parole celesti. È la dote della terra, il dono per le nozze dell’Alleanza, la risposta al dono della Legge. L’Alleanza è reciprocità anche perché è un dialogo tra cielo e terra, dove le parole inedite e nuove che squarciano la nube si incontrano con le parole terrestri fiorite dalle ferite amate della storia dell’Adam, creato a immagine della voce che aveva detto le dieci parole. L’Esodo ci dice allora che l’asino sfiancato dal peso, il bue che cozza e uccide, il feto della donna schiava, la festa del raccolto, possono stare vicino al «Non uccidere» e al «Non ti farai idoli». Tutta parola che salva e libera. Sta qui, in questo impasto di parole di cielo con parole di terra, il cuore dell’umanesimo biblico. Incastonate in questo grande “Codice dell’Alleanza”, si trovano delle autentiche perle eterne di civiltà, che devono arrivare dentro i nostri giorni, per cambiarli o quantomeno scuoterli, per mandare in crisi le nostre certezze. «Quando tu avrai acquistato uno schiavo ebreo, egli ti servirà per sei anni e nel settimo potrà andarsene libero, senza riscatto» (21,2). Anche in Israele c’erano gli schiavi (sebbene, in modo significativo, solo dopo la monarchia). Anche nel popolo di un Dio che si presenta sul Sinai come liberatore dalla schiavitù, che è l’anti-idolo perché nemico delle schiavitù, esistevano schiavi. È uno dei paradossi dell’incarnazione della parola nella storia, che però ci dice molte cose. Questi schiavi erano persone “acquistate” (
qnh, è un verbo usato per gli acquisti in moneta), dei debitori insolventi che perdevano la libertà perché non riuscivano a restituire i prestiti ricevuti. E con loro spesso finivano schiavi anche moglie, figli, e soprattutto figlie (21,3–5). Questa forma di schiavitù per debiti è ancora ben presente e in crescita nel nostro capitalismo, dove imprenditori, cittadini, quasi sempre poveri, precipitano nella condizione di schiavo solo perché non riescono a ripagare i debiti. E così perdono, ancora oggi, la libertà, la casa, i beni, la dignità, e non di rado anche la vita. Tra gli schiavi per debiti ci sono senz’altro, ieri e oggi, sprovveduti, speculatori maldestri, creduloni; ma ci sono anche imprenditori, lavoratori e cittadini giusti caduti semplicemente in sventura – la Bibbia ci ricorda, basterebbe pensare a Giobbe, che anche il giusto può cadere in sventura, senza nessuna colpa: non tutti i debitori insolventi sono colpevoli. Persone ridotte in condizione di schiavitù non solo dalle mafie e dagli usurai, ma anche da società finanziarie e banche protette dalle nostre “leggi” scritte troppo spesso dai potenti contro i deboli. Ma noi, diversamente dal popolo del Sinai, non riusciamo a chiamare per nome (”schiavi”) questi sventurati, e nessuna legge li libera alla scadenza del settimo anno. Eppure quella antica Legge continua a ripeterci da millenni che nessuna schiavitù deve essere per sempre, perché prima di essere debitori siamo abitanti della stessa terra, siamo figli dello stesso cielo, e quindi, veramente, fratelli e sorelle. Perché la ricchezza che possediamo, e che prestiamo ad un altro, prima di essere nostra proprietà privata è dono ricevuto, è provvidenza, perché «mia è tutta la terra» (19,5). Il riconoscimento che la ricchezza e la terra che possediamo non sono dominio assoluto perché prima sono dono, ispira tutta la legislazione biblica sul denaro e sui beni. Quando, invece, noi oggi pensiamo che la nostra ricchezza sia solo conquista individuale e merito, allora i debiti non vengono mai rimessi, gli schiavi non vengono liberati mai, la giustizia diventa filantropia. Il dominio assoluto dell’individuo sulle sue cose è invenzione tipica della nostra civiltà, ma non è la logica del Sinai, non è la legge vera della vita. Dentro questa grande cornice vanno lette anche le parole del Codice dell’alleanza sui doveri verso il nemico, il divieto di chiedere gli interessi sul denaro all’indigente, la legge del mantello: «Quando vedrai l’asino di colui che ti odia accasciarsi sotto il carico, astieniti dal rimuoverlo solo per la bestia, ma lo devi rimuovere insieme a colui che ti odia» (23,5). Non è sufficiente sollevare l’asino accasciato per pietà verso la povera bestia: quell’incidente deve diventare occasione per la riconciliazione con il fratello-nemico che ti odia. Nessun nemico cessa di essere fratello, e il dolore dell’umile asino deve diventare via di ricomposizione della fraternità spezzata. «Se tu presti al mio popolo, all’indigente che sta con te, non ti comporterai da creditore, non imporrai su di lui interesse alcuno» (22,24). All’indigente non si presta a scopo di lucro, non si specula sulle povertà. E invece nel sistema economico che abbiamo costruito fuori dall’Alleanza, sono soprattutto i poveri, non i ricchi né i potenti, ad essere ridotti in schiavitù da interessi sbagliati e insostenibili. E il povero continua a gridare. «Se veramente prendi in prestito in pegno il mantello del tuo prossimo, glielo renderei al tramonto del sole, perché è la sua sola coperta, è il mantello della sua pelle, con che cosa potrebbe dormire? Avverrà che quando griderà verso di me, io lo ascolterò, perché io sono misericordioso» (22,26). Dovremmo provare a scrivere una nuova economia a partire dalla “legge del mantello del povero”; almeno immaginarla, sognarla, desiderarla, se vogliamo essere degni della voce del Sinai. Dovremmo stampare e affiggere queste parole dell’Esodo sugli stipiti delle nostre banche, sulle porte delle agenzie delle entrate, nelle aule dei tribunali, di fronte alle nostre chiese. Troppi poveri sono lasciati “nudi e senza mantello” nella notte, e muoiono al freddo delle nostre città opulente. Ma il loro grido non resta inascoltato: sono tanti, anche oggi, le persone animate da carismi che tutte le sere coprono con i loro mantelli molti poveri delle mille Stazioni Termini del mondo. Non sono sufficienti a coprire le troppe pelli ancora denudate di giorno e di notte. Ma la loro presenza rende vive e vere quelle antiche parole di vita, che così possono parlarci più forte, scuoterci, farci dormire meno tranquilli al caldo dei nostri molti mantelli.
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