Stefano Carofei
Con la serie «Io seguo la Chiesa» Avvenire propone a cadenza settimanale un viaggio attraverso i temi centrali dei dieci anni di pontificato di papa Francesco. La vaticanista Stefania Falasca propone ogni domenica una chiave di lettura per capire e seguire meglio un magistero che guida tutti i credenti. (Leggi tutti gli articoli della serie CLICCA QUI)
«La Chiesa si presenta quale è e vuole essere, come la Chiesa di tutti, e particolarmente la Chiesa dei poveri». Così, nel suo messaggio radiofonico dell’11 settembre 1962, Giovanni XXIII presentava la Chiesa alle soglie del Concilio Ecumenico Vaticano II. È un pronunciamento ricco di significato che, assieme al discorso d’apertura Gaudet mater Ecclesia, era destinato ad avere una grande ripercussione sui lavori conciliari. Perché «i poveri – ribadiva Paolo VI il 29 settembre 1963, nel discorso di apertura della seconda sessione del Concilio – appartengono alla Chiesa per diritto evangelico e obbligano all’opzione fondamentale per loro».
A cinquant’anni di distanza, la scelta stessa del nome pontificale di Francesco, in riferimento al Povero d’Assisi, si direbbe quindi un consolidamento di quella che sarebbe stata la direzione preferenziale della Chiesa, motivata dall’indicazione programmatica di una «Chiesa povera e per i poveri», come dichiarato proprio da papa Francesco all’indomani della sua elezione, richiamando le parole di Giovanni XXIII all’apertura del Concilio. Della Chiesa povera e dei poveri si era parlato a lungo nel corso delle assise conciliari con riflessioni e suggerimenti per i vari documenti. Tra questi, spicca senza dubbio il discorso su “Chiesa e povertà”, tenuto il 6 ottobre 1962 dall’allora arcivescovo di Bologna, Giacomo Lercaro. Il cardinale Lercaro chiedeva che lo schema sulla Chiesa venisse scritto di nuovo a partire dal mistero del Cristo povero e che quello della povertà della Chiesa fosse «l’elemento di sintesi» di tutto il Concilio. Un intervento che ottenne una risonanza all’interno e al di fuori delle assise conciliari, le cui tracce si trovano nel capitolo 8 della costituzione dogmatica sulla natura della Chiesa Lumen gentium.
Si tratta dunque di chiavi decisive per comprendere la coscienza della Chiesa nella quale viene a rimettersi in piena luce la centralità dei poveri nell’annuncio della salvezza. E a seguito del Concilio si comprende anche la traiettoria ecclesiale diretta che dalla Conferenza generale dell’episcopato latinoamericano di Medellin del 1968 – passando attraverso due fondamentali documenti di Paolo VI, l’esortazione Evangelii nuntiandi e l’enciclica Populorum progressio – riaffiora nella quinta Conferenza generale dell’episcopato latinoamericano e dei Caraibi tenutasi ad Aparecida in Brasile nel 2007 e guidata dall’allora arcivescovo di Buenos Aires, Jorge Mario Bergoglio, oggi papa Francesco. Un cammino di consapevolezza che il Concilio recupera e illumina in riferimento alla scelta dei poveri e che la Chiesa deve esercitare: non come una forma speciale di carità verso di loro, ma come scelta nella quale è in gioco la fedeltà della Chiesa a Cristo.
Significa quindi optare per il povero non limitandosi alla promozione sociale né a un’opera di evangelizzazione. E se in questa scelta è in gioco la fedeltà della Chiesa a Cristo - perché i poveri sono i prediletti di Dio, a loro è concessa la sua prima misericordia, di essi è il Regno, sono un segno messianico della verità della missione di Gesù Cristo, e perché Cristo si è identificato in loro (Mt 25, 20) «e ha voluto farsi povero lui stesso e sfuggire da questa identificazione equivale a mistificare il Vangelo» - ne consegue che i motivi dell’opzione preferenziale sono di ordine teologico, dato che è Dio stesso che ama preferenzialmente i poveri e tale amore fonda l’operazione che la Chiesa compie a loro favore.
L’opzione per i poveri così intesa non consiste pertanto solo nell’aiutarli, bensì nell’accettare che attraverso di essi debba fondarsi e stabilirsi il Regno di Dio. Sono in questa prospettiva al centro dell’Evangelii gaudium (2013), la prima esortazione apostolica di papa Francesco, in cui si sottolinea come passaggio fondamentale che l’opzione per i poveri è una «forma speciale di primazia nell’esercizio della carità cristiana, della quale dà testimonianza tutta la tradizione della Chiesa». E si ribadisce che «è necessario che tutti ci lasciamo evangelizzare da loro», che «la nuova evangelizzazione è un invito a riconoscere la forza salvifica delle loro esistenze e a porle al centro del cammino della Chiesa»; che «siamo chiamati a scoprire Cristo in loro per vivere l’essenza del Vangelo », chiarendo che «la promozione anche sociale dei poveri non è un impegno esterno all’annuncio del Vangelo, al contrario, manifesta il realismo della fede cristiana e la sua validità storica».
«Perché parlo dei poveri? Ma perché è il cuore del Vangelo, e sempre parlo della povertà a partire dal Vangelo… C’è una dottrina sociale della Chiesa». Domanda: « Ma lei pensa che la Chiesa La seguirà in questa mano tesa?». Risposta: « Ma sono io che seguo la Chiesa, perché semplicemente predico la dottrina sociale. Tutto quello che ho detto è dottrina sociale della Chiesa. Non è una mano tesa a un nemico, non è un fatto politico. È un fatto catechetico. Voglio che questo sia chiaro. Grazie», spiegava il Papa il 13 luglio 2015, nella conferenza stampa al ritorno del viaggio apostolico in Ecuador, Bolivia e Paraguay. E citava gli insegnamenti dei primi teologi della Chiesa, san Basilio di Cesarea e san Giovanni Crisostomo, per condannare l’idolatria del denaro che è causa di un’«economia che uccide» e affermare, sempre con i Padri della Chiesa, che « non condividere i propri beni con i poveri significa derubarli e privarli della vita, perché i beni che possediamo non sono nostri, ma loro».
E se la condizione dei poveri obbliga a non prendere «alcuna distanza dal Corpo del Signore che soffre in loro, siamo chiamati, piuttosto, a toccare la sua carne per comprometterci in prima persona in un servizio che è autentica evangelizzazione». Fin dall’inizio papa Francesco ha così richiamato la compagine ecclesiale a toccare «la carne di Cristo, le sue piaghe». E nel modo in cui ha insistito nell’abbracciare le «piaghe di Cristo» ha spiazzato quanti imputano alla Chiesa il mero assistenzialismo e quanti l’hanno accusato di pauperismo. Un richiamo insistente che lascia intravedere il cuore ultimo del mistero della carità, imparagonabile a qualsiasi filantropia. In questa prospettiva, autenticamente cristiana, la Chiesa non pone l’accento sul proprio portare ma è chiamata ad andare, toccare e curare le piaghe dei poveri, perché nel chinarsi sul povero riceve essa stessa la Grazia che la fa vivere. «Quando si tocca la carne di Cristo sofferente – dice il Papa – può accadere che si sprigioni nei nostri cuori la speranza. È lì che possiamo ricevere la Grazia». Per questo uscire e farsi incontro ai poveri per la Chiesa è vitale. Vuol dire lasciarsi incontrare da Cristo stesso.
Dal Concilio al Vangelo, dunque, e dal Vangelo ritorno, nel solco della Tradizione. Per il semplice motivo che, spiega ancora il Papa, «sono il tesoro della Chiesa. I poveri, anche i poveri di salute, sono il tesoro prezioso della Chiesa!». Parole nuove? No. Sono del santo diacono dei primi secoli Lorenzo, uno dei più noti e popolari santi romani che, obbligato a consegnare i beni materiali della Chiesa ai persecutori, avendo distribuito l’oro ai poveri, con la folla di questi ultimi si presentò ai carnefici dicendo: « Ecco i tesori che mi avete richiesto. Questi che vedete sono il tesoro della Chiesa!». Come diacono di papa Sisto II, Lorenzo provvedeva personalmente ai bisognosi «che erano abituati a essere sostenuti dalla mani della madre Chiesa». E l’importanza ecclesiale di Lorenzo è tale da essere paragonato anche liturgicamente agli apostoli («apostolorum supparem»), ed è tale anche per ricordare che tutto nasce dall’eredità di Pietro e Paolo, cioè dalla fides romana fonte di carità. Prudenzio, cantandone le lodi, lo chiama «Console perenne della carità», colui che con la carità fa splendere la gloria di Roma.
Da sempre infatti la Chiesa gioisce di questi beni, di questi due depositi inestinguibili di ricchezza: il bene della fede, il depositum fidei, e i poveri, che della sua ricchezza sia spirituale sia materiale sono i destinatari e i fruitori privilegiati. È questa la Tradizione della Chiesa, quella con la T maiuscola per la quale sant’Ambrogio, vescovo di Milano, nel suo De Officiis mininistrorum (Dei doveri degli ecclesiastici) così afferma, commentando l’episodio del gesto compiuto da Lorenzo: « E sono veramente tesori quelli in cui c’è Cristo, in cui c’è la fede di Cristo. Il vero tesoro del Signore è quello che compie ciò che ha compiuto il Suo sangue. Il tesoro della Chiesa è il deposito della fede che viene dagli Apostoli. E quali tesori più preziosi ha Cristo di quelli nei quali ha detto di trovarsi? Quali tesori più preziosi ha Gesù di quelli nei quali ama mostrarsi? Tali tesori – conclude sant’Ambrogio – mostrò Lorenzo e vinse, perché nemmeno il persecutore poté sottrarglieli». «Sono loro il tesoro della Chiesa », ha ripetuto papa Francesco.
È retorica progressista? Comunismo? Pauperismo di chi proviene dalla fine del mondo bisognoso di essere istruito da pulpiti supponenti? No. Questa è la Chiesa, secondo la salutare Tradizione, fondata sulla fides romana. Quella che i Successori di Pietro, come Francesco, oggi e sempre, con mandato di Cristo, sono chiamati a seguire e a portare avanti.