Sandro Riolevi
«Beata solitudo, sola beatitudo» («beata solitudine, sola beatitudine») è una celebre espressione di san Bernardo di Chiaravalle, il grande propulsore, nel XII secolo, della riforma cistercense. Era evidentemente rivolta ai suoi monaci, che avevano scelto di insediarsi in luoghi isolati, lontani dalle città. Niente distrazioni, architetture essenziali, lavoro e tanta preghiera per dare concretezza anche tangibile all’obiettivo di non anteporre alcunché all’amore di Cristo. Ma la vocazione monastica è diversa rispetto a quella cui rispondono i sacerdoti delle nostre parrocchie, definiti clero «secolare» proprio perché vivono immersi nella realtà mondana, tra la gente. È indubbio che la secolarizzazione abbia in non pochi casi inaridito la rete di relazioni e il clima di consenso e di stima nei confronti dei sacerdoti. La loro scelta di vita appare a molti «eccezionale» e cresce quindi il distacco apparente dalla vita percepita come «comune». Così non è, certo, per chi vive a loro contatto, frequenta la liturgia e partecipa agli organismi, alle attività e alle iniziative della parrocchia. Anche tra questi, tuttavia, come lei giustamente rileva caro Riolevi, può esserci poca attenzione per l’uomo che esercita il ministero. Ma non c’è prete «senza» l’uomo che ha scelto di donare la propria vita al Signore. La «riuscita» del prete presuppone quella dell’uomo. E per lui, come per ciascuno di noi, le relazioni con gli altri hanno un peso determinante. Sostenerlo, essergli vicini con amicizia e disponibilità è la prima forma di carità che possiamo esercitare nei suoi confronti. Eventuali ombre e ritrosie dovrebbero scomparire al solo ricordo della grandezza dei doni di cui è tramite: Parola e sacramenti.
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