sabato 6 agosto 2011
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«Più intelligenti di così non si può». Ecco, in estrema sintesi, le conclusioni a cui è pervenuto un gruppo di ricercatori di Cambridge, sui limiti dell’intelligenza umana. Non possiamo nascondere che una notizia del genere, non adeguatamente relativizzata, si inserisce di diritto nella categoria delle affermazioni apocalittiche. Destinate un po’ a stupirci e un po’ a deprimerci. Perché è dura doversi rassegnare all’idea che l’evoluzione della specie umana abbia raggiunto il suo top e che oramai ci si ritrovi su «un altopiano cognitivo con sopra il nulla». Una prospettiva che indirettamente darebbe ragione a quanti da tempo denunciano l’immobilismo della scienza (e della ricerca pura) da attribuirsi anche agli umani limiti e cognitivi e non solo alla mancanza di fondi o alla preferenza per l’innovazione tecnologica, l’unica in grado di ottenere effettive e immediate ripercussioni economiche in un mondo globalizzato. Di sicuro, senza voler sposare la tesi più pessimistica, è certamente vero che da molti (troppi) decenni la scienza non riesce più a travalicare i limiti e ad aprire orizzonti nuovi, tali da far sperare in un salto di qualità nel processo di sviluppo dell’umanità. A proposito di sviluppo, proprio il limite dell’intelligenza cognitiva potrebbe segnare la plateale sconfitta di quel razionalismo scientista che tutto ha puntato sulle sorti umane e progressive. Al di là della tentazione polemica, qualcosa questa vicenda certamente ci insegna. Innanzitutto ci spinge a chiederci se il mondo come lo conosciamo, sia davvero tutto qui. E se sappiamo abbastanza di noi stessi, al punto di poterci contraddire facilmente e in così poco tempo: un giorno ci vien detto che abbiamo raggiunto l’apice delle nostra capacità intellettiva, mentre solo qualche giorno prima ci è stato annunciato, con altrettanta sicurezza, che sfruttiamo il nostro cervello solo al 20 per cento. E perciò avremmo ancora un buon 80 per cento da mettere a frutto. Che dire? Aspettiamo che la scienza ci dia qualche risposta in tempi ragionevoli e non ci lasci in balìa degli umori scientisti. Intanto qualche domanda possiamo legittimamente porla. Ad esempio, basterebbe chiedersi se non si debba prendere atto dell’oggettiva arretratezza della specie umana, viste le sofferenze che l’umanità subisce o si autoinfligge. Il mondo è già abbastanza disumano di suo, come prodotto di certa nostra cultura e di certe nostre leggi, per avvertirci che se questo è il livello massimo della nostra capacità intellettiva, allora siamo davvero messi piuttosto male. Basti pensare ai guai colossali del sistema capitalistico e finanziario, divorato dall’interno dalle proprie regole selvagge. Per non parlare delle guerre e di tutte le ingiustizie che da un capo all’altro della Terra si inseguono, in un terrificante continuum. È certamente un paradosso, ma siamo davvero sicuri che il mondo così come l’abbiamo costruito risponda ai criteri di una costruzione intelligente? Dubitarne è legittimo. Altro che disegno intelligente: guerre, disuguaglianze, intolleranze, tensioni sociali e povertà sembrano contraddire ogni giorno la nostra intelligenza delle cose. Nel frattempo troppe stupidaggini hanno occupato le nostre menti, troppe informazioni assolutamente inutili e fuorvianti hanno impegnato le nostre sinapsi. Resettarci non può che farci bene. Fare spazio nel nostro cervello forse può riattivare i nostri neuroni affaticati. Costruire il bene comune, intanto, non sarebbe tempo sprecato. Abbiamo tanta strada da recuperare e tante ingiustizie da sanare. Basterebbe solo mettere al bando la risoluzione violenta dei conflitti per dimostrare che l’uomo è ancora una creatura intelligente. Ma siamo drammaticamente consapevoli che anche la nostra generazione non vedrà questa aspirazione realizzarsi. Eppure speriamo. E restiamo in attesa che la scienza torni a sorprenderci. Non con un nuovo prodotto, frutto delle applicazioni tecnologiche più recenti, ma almeno con uno squarcio in quel velo che ci nasconde la verità del Creato.
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