Domenica la Conferenza episcopale italiana, oltre a compiere gesti di concreta solidarietà, aveva invitato tutte le parrocchie e comunità cristiane a pregare per la gente dell’Afghanistan travolto dall’onda taleban e per la popolazione di Haiti di nuovo colpita da un temendo sisma. L’hanno fatto in tanti. Ma a prescindere da quanti avranno aderito, mi pare utile considerare che la preghiera per qualcuno o qualcosa è il vaccino cristiano contro l’oblio. Se preghiamo per loro, siamo sicuri che li ricorderemo (li porteremo con noi) anche quando fatalmente i riflettori dei media si spegneranno. Ri-cordare, etimologicamente, significa portare nel cuore e la preghiera dà radici a tale memoria, fa sì che la memoria divenga un’esperienza duratura. Perfino che divenga un sogno, quello della pace.
E un progetto. All’inizio piccolo: magari solo a misura dei singoli uomini che hanno la possibilità di accogliere qualcuna delle persone in fuga da Kabul. Poi forse il progetto lievita, diventa un piano grande, vasto, internazionale, che si lega ad altri. I sogni di cui parlo – quelli che nascono dalla preghiera – non sono illusioni o utopie, ma un compito: quello di trasformare nel sogno che ci anima lo spazio reale che ci è dato di vivere. Non solo è importante ciò che mi aspetto dalla vita, ma soprattutto quello che la vita mi chiede. Il sogno che nasce quando preghiamo non è altro che cimentarsi con tutte le proprie energie nel realizzare quello che la vita ci chiede. Chi non prega s-corda. E la dimenticanza è un gorgo, un buco nero che inghiotte il male senza guarirlo: anzi facendolo imputridire in un marciume foriero solo di malanni ulteriori. La preghiera è antidoto a tutto ciò, contribuisce a far sì che la ferita del passato divenga un presente non solo doloroso ma portatore di nuova vita. Pregare aiuta a uscire dal dolore che ci rende schiavi e conduce a qualcosa non di irreale, di impossibile, ma anzi – situandolo nella giusta progettualità – conduce oltre il proprio oggi e introduce nel vero presente, cioè nella speranza che ha radici nella memoria. Quando preghiamo su ciò che ci fa soffrire siamo con un Dio che magari in quel momento ci chiede di aspettare per poi guardare, immaginare nuove vie, nuove modalità che ci consentano di raggiungere ciò che desideriamo.
E poi di camminare. Tutte le storie nascono da Dio e tutte le storie a Lui ritornano. Se sono figlio di Dio, 'chi sono io' non è solo affar mio ma è anche affare di Dio. Siamo in due a giocarcela. Quando prego a partire dal mio dolore parto dal Suo sogno creatore di amore verso di me, glielo rammento e a quello voglio tornare. Lui mi dà la vita, io la prendo e parto accompagnato. Si può descrivere la propria vita come un continuo ripartire domandandosi come tornare ad ascoltare il desiderio di Dio. In questo senso pregare su quanto sta avvenendo in Afghanistan è riflettere sulla presenza di Dio nella propria vita e nella storia di tutti. E quella riflessione porterà a nuove soluzioni, a nuovi progetti, a nuovi sogni.
I sogni che nascono dalla preghiera, i sogni fatti con Dio, sono 'roba' seria. Non si sognano mai cose impossibili, quelle si chiamano 'favole'. I sogni nascono dal nostro ri-cordare nel senso – come detto – di non portare solo nella 'mente' ma soprattutto nel nostro cuore. Un’operazione che è più del 'tenere a mente' perché dà forma non solo ai nostri pensieri ma anche ai nostri sogni nel senso più reale, piccolo e concreto possibile. I sogni che nascono nella preghiera parlano la stessa lingua che parliamo per pagare il conto al bar, per dirsi delle cose con un amico, per sostenere un esame. I sogni hanno lo stesso accento delle nostre parole. Sono veri perché fanno parte della nostra vita. E quando diventano progetti, si incarnano. Ma non si fa nulla senza una preghiera, neanche un progetto piccolo piccolo.