Gradualità, pragmatismo e finalmente un’attenzione alla maternità. Al di là dei proclami, piuttosto roboanti, sulla «svolta per una generazione», le ultime scelte del governo sul lavoro sembrano rispondere a questi criteri. La precarietà del lavoro non si cancella con un decreto come fosse una bacchetta magica. Né soprattutto si può pensare che basti eliminare un paio di forme contrattuali per far superare i problemi a una generazione di giovani.Le collaborazioni coordinate e continuative e i contratti a progetto, infatti, non sono state creati dal decreto Treu (1997) e dalla legge Biagi (2002) per inventare nuove formule di ingresso flessibile in azienda. È piuttosto vero il contrario: quelle norme si sono rese necessarie per dare tutele e una veste giuridica a un fenomeno assai esteso preesistente, un portato della grande trasformazione che il lavoro sta subendo nelle nostre società, in cui i confini tra dipendente e autonomo sono più labili e le imprese cercano la collaborazione di figure ibride con vincoli contrattuali a progetto appunto. Ora la scelta di far "morire" le collaborazioni solo dal 2016, addirittura lasciarle vivere anche oltre, se previste da una contrattazione sindacale, significa aver compreso che occorre appunto gradualità e prudenza. D’altrocanto, in gioco ci sono oltre mezzo milione di contratti di collaborazione, predominanti in alcuni settori (call center, recupero crediti, ricerche di mercato). E non è un caso che, nel suo "ottimismo della volontà" lo stesso premier Renzi parli di «200mila persone che avranno un contratto a tutele crescenti», evidentemente ritenendo che la maggior parte degli attuali collaboratori resti tale o divenga una Partita Iva (speriamo non disoccupato o in nero).Pragmatismo, insomma. Come quello che ha portato a mantenere in vita il lavoro a chiamata (diffuso soprattutto nella ristorazione e nel turismo) che pure molti ritengono una delle forme più precarie e che, in teoria, si sarebbe potuto sostituire con la somministrazione. Discorso simile per il lavoro occasionale, pagato con voucher, i cui limiti di utilizzo sono stati addirittura ampliati da 5mila a 7mila euro l’anno. In definitiva, realmente abolite da subito sono solo due tipologie piuttosto residuali come le associazioni in partecipazione, che interessano appena 44mila lavoratori e il
job sharing (il lavoro condiviso) che riguarda appena 300 persone in tutto il Paese. Parliamo per queste ultime due tipologie dello 0,2% degli occupati in Italia. Se volessimo contare anche l’intera platea dei collaboratori si arriverebbe al 2% dei lavoratori. Delle due l’una, allora: o la precarietà da noi è davvero marginale oppure queste misure non eliminano una precarietà che è fatta in particolare di contratti a termine (oltre 1,7 milioni in un trimestre) la cui estensione è stata appena riconfermata dal governo nello stesso provvedimento (la realtà è che la vera precarietà è l’inoccupazione, la marginalità, lo scoraggiamento di molti giovani che non studiano e non lavorano).L’addio all’articolo 18 per i nuovi assunti, che ora diventa definitivo, era già acquisito e perfino "digerito" dopo gli scioperi generale senza esito dei mesi scorsi. L’approvazione del relativo decreto senza modifiche testimonia semmai della perdita di qualsiasi peso pure del Parlamento, visto che i pareri delle commissioni di Camera e Senato non sono stati presi in alcuna considerazione dal governo. «Nessuno resterà solo dopo un licenziamento» promette adesso il premier. Dovrà essere davvero così, perché si può togliere l’imbragatura della reintegra che teneva legato per sempre il lavoratore a quel singolo posto. Ma solo se si stende una vera rete di protezione per tutti, fatta di politiche attive per il ricollocamento, oggi ancora da mettere a punto. Dove invece il governo ha compiuto davvero dei passi in avanti è nella tutela della maternità. Resta molto ancora da fare, ma almeno qui si è cominciato dalla parte giusta: quella della famiglia.