È la politica estera, probabilmente, il campo nel quale la continuità tra prima e seconda amministrazione Obama si manifesterà maggiormente. Questo per due ordini di ragioni, diverse ma convergenti. Da un lato c’è il fatto che la politica estera persegue l’interesse nazionale, per cui è meno soggetta a repentini cambiamenti e soffre le impostazioni eccessivamente ideologiche.Le grandi potenze in particolare hanno interessi che mutano molto lentamente, sono i veri e propri 'grandi azionisti' del sistema internazionale, naturalmente interessati alla sua conservazione e alla sua stabilità e gli Stati Uniti, al di là dei sintomi di un loro declino relativo, sono di gran lunga il più grande dei giocatori più rilevanti. Dall’altro, e in maniera per nulla contraddittoria, proprio la percezione del progressivo esaurimento del momento unipolare, la constatazione che persino la straordinaria concentrazione di potenza dell’America post-Guerra fredda non è sufficiente ad assicurare la stabilità e l’ordine dell’intero sistema internazionale, spingerà Washington a essere sempre meno pro-attiva e sempre più reattiva rispetto alle sfide di politica internazionale che le si paleseranno di fronte nei prossimi quattro anni.Messa alle spalle questa doverosa premessa, possiamo immaginare che siano tre i dossier aperti nella politica estera degli Stati Uniti che occuperanno gran parte dell’attenzione strategica di Casa Bianca e Dipartimento di Stato. Il primo è quello cinese. Il caso ci ha messo lo zampino, ma ha anche un valore simbolico il fatto che la proclamazione del rieletto 44esimo presidente americano coincida con l’apertura dei lavori del Congresso che a Pechino designerà il nuovo presidente del Repubblica, primo Segretario del partito comunista e presidente della Commissione militare centrale.Se non c’è nessuna incertezza sul nome del designato – Xi – crescono invece gli interrogativi su quanto la Cina si appresti (forse sarà costretta) a cambiare nei prossimi anni. Le contraddizioni tra sviluppo del mercato interno, capacità del partito unico di mediare la crescente competizione degli interessi e dilagante e sempre più rampante diseguaglianza potrebbero portare Pechino ad assumere atteggiamenti di maggiore intransigenza, se in di aperta sfida, nei confronti di Washington. Proprio questa incertezza e i suoi esiti potrebbero spingere Casa Bianca e Dipartimento di Stato a dover sciogliere la riserva a proposito del domanda su cui da diversi anni tutte le amministrazioni Usa si sono interrogate: considerare la Cina innanzitutto come un partner oppure come un rivale, cioè applicare prevalentemente strategie di 'engagement' o di 'containment'?Il secondo file aperto è quello mediorientale. Finora, a parte le pur rilevanti differenze di stile (e lo stile è una componente essenziale della politica estera), e al di là delle posizioni di maggior ascolto espresse nei confronti del mondo arabo islamico, la politica mediorientale di Barack Obama non ha portato a casa grandi risultati. Certo, Obama rimane il presidente americano più filo arabo (o, direbbero alcuni, meno anti arabo) dai tempi di Eisenhower, quello che ha una posizione personale più equilibrata sulla questione israelo-palestinese. Eppure nella regione tutti sanno, a cominciare dal governo di Gerusalemme a quello del Cairo o di Riad, che l’America continua a trattare il Medio Oriente alla luce di due logiche separate. Quella della sicurezza di Israele e quella della sicurezza degli approvvigionamenti energetici. Espressione di questo dualismo è plasticamente fornita dalla relazione particolare che lega gli Stati Uniti a due Paesi diversi e ostili l’uno all’altro come Israele e l’Arabia Saudita. È del tutto evidente che i due temi interferiscono continuamente. Ma il punto cruciale è che, a seguito degli sviluppi determinati dalle primavere arabe, ostinarsi a tenerli separati diventa non solo impossibile ma persino pericoloso, se si considera che oggi l’Arabia Saudita non rappresenta più solo il principale detentore di riserve accertate di petrolio al mondo, ma anche l’attore politicamente più rilevante nel Golfo, nel Levante e, in prospettiva, in tutta la regione.C’è infine il dossier europeo. Il fatto che in campagna elettorale si sia parlato poco di Europa non deve trarre in inganno. Obama è consapevole della rilevanza crescente di un euro in salute e di un’Europa politicamente più unità affinché possa essere garantita la stabilità del sistema internazionale. Il suo apporto è stato decisivo, idealmente accanto anche al premier italiano Monti, per convincere la cancelliere Merkel a essere meno rigida rispetto a un più generoso sostegno alla moneta unica. Sono lontani i tempi in cui gli americani temevano un euro forte. Oggi quello che fa paura è un euro e un’Europa deboli. Proprio in questa direzione, la vittoria di Obama potrebbe consentire di rilanciare il dibattito anche al di qua dell’Atlantico sulla possibilità che il rilancio dell’economia occidentale non passi solo per la via del rigore dei conti e non invece innanzitutto dallo stimolo allo sviluppo. Ma la richiesta di Obama all’Europa sarà probabilmente anche di natura diversa: cioè di assumersi un onere maggiore per la stabilizzazione del Mediterraneo, quindi di spendere di più e meglio per la comune difesa, ormai vicina al punto di insostenibilità in termini di efficacia, come la campagna libica dello scorso anno ha impietosamente messo in luce.