Il professor Francesco Pizzetti, Garante per la protezione dei dati personali, lancia un allarme. Siamo "tracciati" attraverso i segnali che ci individuano incessantemente attraverso i nostri strumenti digitali. Basta il possesso di un telefonino intelligente, uno smartphone, di un Blackberry o di un iPad. Non è nemmeno necessario che lo usiamo: dalle nostre tasche pulsa e segnala i nostri movimenti. Al Garante, nella relazione annuale al Parlamento, è venuto di equiparare ciascuno di noi a un «Pollicino elettronico». Tanto più coloro che, oltre a lasciarsi dietro segnali involontari, si dedicano – come giovani e giovanissimi fanno nei social network o scaricando applicazioni gratuite – a disseminare commenti, fotografie, filmati, ovvero a fornire informazioni volontarie su di sé, sui gusti, gli atti, l’intimità. Frammenti di vita, oro per la pubblicità.Sono molti a pensare che tutto ciò sia vero, ma inevitabile: il prezzo da pagare per quella stessa tecnologia che ci ha dischiuso le porte dell’era digitale. Volete restare connessi sempre e ovunque, ottenere tutte le informazioni e trovare risposta a ogni curiosità, giocare e divertirvi gratis? Questo è il bello e il brutto della rete, un sistema di scambi continui in cui non si può prendere nulla senza dare qualcosa in cambio, pagando con l’unica ricchezza di cui tutti siamo ricchi, la propria identità.I flussi di informazioni che scorrono nell’internet sono per lo più liberi e spontanei. Certo, esistono anche criminali che se ne appropriano, ma per lo più siamo noi stessi ad accettare questo scambio. Che può spesso apparire minimale – nome, indirizzo, email, gusti, spostamenti – ma attiva processi di portata così enorme che non riusciamo a immaginarli. Il sistema elettronico globale, da qualche parte, conserva tutto ciò che ho guardato, letto, comprato, preferito negli ultimi anni. Enumera i miei amici e parenti. Conosce la misura delle mie scarpe e le diottrie dei miei occhiali. Può elencare le mie malattie. Conta i miei passi e sa descrivere i percorsi che faccio a piedi o in auto. Non dimentica niente, non sa cos’è l’oblio. Il nodo non è (solo) tecnologico. Poco importa che il Grande Fratello garantisca anonimato e protezione, e la scommessa che tutto ciò avvenga senza che il mio nome venga mai alla luce. Qualsiasi barriera tecnologica, infatti, può essere violata e c’è qualcuno che sempre saprà farlo. Viene da sorridere a sentir parlare di cellulari a rischio tracciatura nel momento e nella nazione in cui milioni di intercettazioni telefoniche dettano toni e ritmi della vita politica e giudiziaria.Difendersi dall’aggressione sociale e umana delle tecnologie con promesse tecnologiche è corretto, ma di per sé insufficiente. Il fatto che molti giovani nemmeno si pongano quel problema della privacy che preoccupa gli adulti, aiuta a ricordare che siamo noi a creare le tecnologie, non viceversa, e che dunque la rete globale è a misura di come l’abbiamo voluta nell’orizzonte di quella modernità liquida che annacqua e rimescola le identità da molti decenni prima che i pc e le reti facessero la loro comparsa. La fiaba azzeccata, qui, è quella tolkieniana dell’Anello. Chi ha in mano lo strumento onnipotente deve avere la forza, e fare la fatica, di piegarlo allo scopo, come Frodo, senza farsene impadronire, come Gollum. Atteggiamento impossibile e, ancor più, incomprensibile senza un patrimonio identitario che distingua valori e disvalori, che stabilisca fini e mezzi, che istituisca precedenze e contempli rinunce, che eriga effettive reti sociali e non soltanto affollamenti umani abilitati dalla tecnica. Quando un ragazzo può cedere un frammento di sé per una «app» gratuita, o può vendere un rene in cambio di un iPad, il mondo fa cortocircuito tra il massimo della tecnologia e il minimo dell’umanità. Ecco perché i problemi della Rete sono fuori e prima della Rete.