Un braccio di ferro all’interno del regime. La complicata, ma non necessariamente lunga, crisi iraniana sembra avere le connotazioni di uno scontro di potere più che di una resa dei conti tra fautori della teocrazia nazionalistica e sostenitori di un sistema pienamente liberale e democratico. Tra la base che è scesa in piazza a favore dello sconfitto Mir Hossein Mussavi probabilmente non mancano ammiratori dello stile di vita sociale e politico dell’Occidente, ma certo né il candidato riformista che chiede nuove elezioni, né le personalità che in qualche modo hanno fatto fronte con lui – da Khatami a, con molti distinguo, Rafsanjani – vogliono mettere in discussione l’ordinamento che ha al suo vertice una guida suprema religiosa. Né, pur con il loro approccio pragmatico e maggiormente realista, sembrerebbero intenzionate a disfarsi in breve tempo del programma nucleare che tanto preoccupa il mondo. Quale sia la misura dei brogli che hanno caratterizzato le elezioni presidenziali risulta al momento difficile da stabilire. Tuttavia, alcuni dati disaggregati suggeriscono che l’affermazione di Ahmadinejad non solo nelle zone rurali, a lui certamente vicine, ma anche a Teheran – data come molto più spostata verso i riformisti – e nella provincia natale dello stesso Mussavi sia quantomeno assai sorprendente. E un riconteggio parziale, quale quello promesso ieri dal Consiglio dei Guardiani, non potrà ribaltare il risultato salvo clamorosi colpi di scena. Sebbene non sappiamo se la dura reazione del regime sia stata proporzionale all’entità delle manipolazioni, come ha sostenuto il presidente francese Sarkozy, di sicuro gli spari sulla folla, la repressione delle contestazioni e la stretta sull’informazione hanno svelato un volto del regime che riduce la legittimità del rieletto Ahamadinejad. Non si può escludere a questo proposito che la contestata linea morbida dell’Amministrazione Obama abbia giocato un ruolo nel far esplodere le contraddizioni dell’establishment iraniano. Un Bush dalla faccia feroce, che si poteva utilmente dipingere a scopi domestici come 'nemico' deciso a umiliare il Paese, avrebbe dato minor margine di manovra al gruppo 'dissidente'. L’apertura americana della vigilia e la cautela nel commentare l’esito delle urne rende invece arduo indirizzare all’esterno, da parte dei 'falchi', le tensioni sorte in patria. Ciò non significa che cambieranno rapidamente lo scenario interno e quello internazionale. Ago della bilancia a Teheran resta la Guida suprema Khamenei, il quale pare che tema più Rafsanjani, suo possibile successore, di quanto apprezzi Ahmadinejad. Di qui la possibilità che i brogli siano stati un fatto compiuto davanti ai quali ha dovuto fare buon viso e che ora tenti di ripristinare lo status quo ridimensionando la portata della vittoria del presidente uscente. E se gli Usa persisteranno – come sembra – nella volontà di negoziare, Ahmadinejad, pur indebolito nell’immagine (ma salutato ieri dall’asse russo-cinese) e bisognoso di maggiori coperture interne, potrà riprendere la sua partita, sapendo che il tempo lavora per lui. Il Mossad israeliano stima infatti che la bomba degli ayatollah sarà pronta già nel 2014. L’Iran resta un enigma di complessa decifrazione e una potenziale minaccia alla pace della regione. Le sue contrapposte piazze, piene e agitate, per ora non danno elementi che facciano sperare in una svolta.