Mentre scorrono veloci questi giorni irripetibili per la vita della Chiesa, che stiamo vivendo quasi condotti per mano da Benedetto XVI, accompagnati dai suoi gesti e dalla sua parola, possiamo porci delle domande che ci aiutino a capire meglio il significato di un cammino così nuovo, azzardarne un primissimo bilancio. Possiamo interrogarci sul quel groviglio di sentimenti, sensazioni, reazioni, che si è formato e poi esploso nell’animo di tanti di noi, romani vicinissimi al Papa, fedeli d’ogni parte del mondo, ma anche non praticanti e perfino agnostici e atei, quando abbiamo appreso della rinuncia di Benedetto XVI quel mattino dell’11 febbraio, che rimarrà come ricordo indelebile nella nostra mente. E possiamo cercare di coglierne lo spessore, analizzarne le componenti, distinguere la paura e l’incredulità, la sorpresa e l’amarezza, ma anche l’immenso affetto che abbiamo provato subito, quasi istintivamente, per il Papa, e ancora la percezione che stava avvenendo qualcosa di inedito che interrogava la coscienza, chiedeva di riflettere, capire, magari (l’idea è affiorata presto) di pregare per capire. Molti di quei pensieri e sentimenti che ci hanno investito in modo travolgente sono ancora vivi, non sono evaporati in poche ore o giorni, ci accompagnano nei ragionamenti che elaboriamo, nelle convinzioni che maturiamo. Essi hanno già fatto emergere un elemento che non era scontato. La figura del Pontefice in quanto tale, ma anche la figura di questo nostro Papa, Benedetto XVI, si è talmente incarnata nella coscienza, nell’interiorità di ciascuno di noi, che la consideriamo inamovibile, luogo di contatto fra il trascendente e l’umano, garanzia per l’ideale più grande di cui abbiamo bisogno per credere, sperare, guardare al futuro. Questo sottofondo della coscienza l’abbiamo potuto confrontare con amici e conoscenti, anche lontani (qualcuno addirittura ostile) dalla Chiesa: questi ultimi hanno manifestato stupore per l’evento dell’11 febbraio e hanno usato, forse per la prima volta, parole dolci per il Papa, si sono sentiti figli suoi, quasi sfiorati dal timore, dalla paura dell’abbandono. Lo stupore che la rinuncia di Benedetto XVI ha provocato conferma il valore ontologico che la cattedra di Pietro ha per tutti gli uomini, cattolici, cristiani, di altre fedi e opinioni, un valore universale a volte trascurato che ci parla dell’eco del magistero del Papa nei confini della Chiesa e in ogni spazio esterno. Guardiamo un po’ più dentro lo choc multiforme che abbiamo provato, che sentiamo ancora vivo e forte, e che cominciamo a superare anche perché Benedetto XVI è presente, ci parla, ci conforta, ci dice di pregare per lui e per il futuro Papa. Questo suo insegnamento ha diradato le prime nubi che pensavamo si addensassero, interpretate da alcuni come timore e paura circa la forza, la stabilità, dell’istituzione pontificia, della cattedra di Pietro. Ma il Papa ci ha ripetuto che non ci abbandona, pregherà con la Chiesa e per la Chiesa e ha chiesto di fare altrettanto per lui e il futuro pontefice. Queste parole stanno scendendo nel nostro animo, provocano un rasserenamento, assicurano che non ci sarà alcun vulnus, o stravolgimento, che il successore di Pietro è con noi, e con nome diverso lo sarà di nuovo tra breve. L’amarezza, invece, ha trovato compensazione in un altro sentimento che per la verità a livello popolare è stato avvertito fortissimo sin dalla prima ora: una profonda ammirazione per la forza, l’abnegazione, la sincerità di un Papa che dichiara al mondo di non sentirsi più adeguato a sostenere il peso di quel ministero petrino che richiede sempre più energie per sostenere le fatiche che il suo esercizio comporta. Quante volte abbiamo sussurrato: chi gli ha dato la forza di compiere questo gesto, di dichiarare la sua inadeguatezza per l’età che avanza, di spiegarlo alla Chiesa e all’umanità? Dal quel momento, e da quel sentimento di ammirazione, abbiamo iniziato un cammino che ci ha portato a riconoscere che la scelta del Papa era dettata da una grandezza interiore, che solo la fede poteva spiegare, giustificare. Così, giorno dopo giorno (il processo non è compiuto), ora dopo ora, stiamo entrando in un orizzonte più ampio, in una dimensione che dà nuova serenità, quella della fede che si intreccia con la storia, e che rende chiare tante cose che resterebbero oscure se fossero lasciate alle sensazioni superficiali. Siamo stati indotti, in questo modo, a un esame di coscienza personale e collettivo, forse uno dei più intensi dell’epoca moderna, che ci fa riflettere sulla presenza della Chiesa nella storia, sulla garanzia che essa dà di agire e operare perché la parola di Dio non si affievolisca, il messaggio del Vangelo continui a diffondersi, e ciascuno di noi veda in essa il luogo e la sede della speranza di cui non possiamo fare a meno. Stiamo così imparando ad amare più di prima la nostra Chiesa, consapevoli che a questo traguardo ci sta conducendo Benedetto XVI con la sua scelta e il suo magistero.