«I bambini devono tornare a nascere» ha recentemente detto il ministro della Salute Beatrice Lorenzin rilanciando il progetto di un Piano per la fertilità annunciato in marzo proprio ad
Avvenire, la cui presentazione viene prevista per l’autunno. E noi, che nelle scorse settimane abbiamo preso atto di un ennesimo bilancio demografico da Paese in via di estinzione, non possiamo che augurarci che alle sue parole seguano i fatti. D’altra parte mentre l’Istat ci ricorda che i 514mila nati del 2013 rappresentano per l’Italia un record – mai si è scesi così in basso in oltre 150 di unità nazionale – gli addetti ai lavori ci presentano il conto circa le conseguenze sui futuri equilibri previdenziali e sanitari a seguito di comportamenti riproduttivi che, dal lontano 1977, non arrivano a garantire il semplice ricambio generazionale: ossia quei mitici "due figli per coppia" (in media) che neppure le famiglie immigrate - alle quali qualcuno guardava come il magico rimedio alla nostra denatalità – sembrano in grado di mantenere.
Di fatto la diagnosi della bassa fecondità nel nostro Paese è da tempo ben chiara e si riassume nel rinvio della scelta genitoriale, più che in una sua esplicita rinuncia. Coppie e famiglie reagiscono alle difficoltà della vita quotidiana – dalla quadratura dei conti a fine mese, alla carenza di strutture per l’infanzia realmente accessibili, alla difficoltà nell’armonizzare i tempi del lavoro e della casa – modificando i progetti di formazione e sviluppo della famiglia. Così, la scelta di avere il primo figlio alle soglie dei quarant’anni – quasi come "ultima spiaggia" dopo i continui spostamenti nel tempo dei progetti di maternità – rischia di accreditarsi come modello dominante nel comportamento riproduttivo delle donne italiane. Una prospettiva, quest’ultima, tutt’altro che auspicabile sia per la natura spesso problematica di una gravidanza in età più matura (stante il calo di fertilità per entrambi i membri della coppia), sia per l’inevitabile tentazione di limitare la prole a quell’unico figlio arrivato (troppo) tardi. L’obiettivo di invertire tale tendenza, verso cui il ministro della Salute intende impegnarsi, sembra dunque condivisibile e quanto mai opportuno, ma come potrà concretamente intervenire un singolo (pur meritorio) Ministero?La terapia per rilanciare la fecondità è ben nota. Essa richiede un’azione di governo che sia collegiale e portata avanti da attori diversi lungo più direttrici. Ciò è ampiamente documentato nel «Piano nazionale di politiche per la famiglia» (tuttora in freezer presso la Presidenza del Consiglio) in cui si prospettano interventi che vanno dall’equità economica alle politiche abitative, al lavoro di cura e ai servizi per la prima infanzia, sino al tema della conciliazione famiglia-lavoro. Ma se è vero che, come empiricamente accertato, la chiave di volta dei processi demografici in cui ci dibattiamo sta nella famiglia, e che è attorno a essa che si decide il futuro dell’intero Paese, per uscire dalla crisi in atto non si può che adottare una strategia basata sul sostegno alla famiglia "in quanto tale". Si tratta di avviare un’azione mirata che sappia chiaramente distinguersi, senza alcuno spirito di contrasto (anzi, con intenti complementari), da altre strategie oggi assai più "di moda" – come le pari opportunità o la lotta alle discriminazioni di genere – e sia decisamente finalizzata a (ri)mettere la famiglia al centro della società.
Tale azione, di cui il Piano nazionale si è fatto portatore, appare fondata su quattro pilastri fondamentali. Il primo riguarda l’equità nell’impostazione tributaria e nelle politiche tariffarie, dove si caldeggiano sia forme di tassazione che tengono adeguatamente conto dei carichi familiari, sia sistemi di contribuzione ai servizi che riconoscono agevolazioni alle utenze con figli. Il secondo pilastro persegue iniziative di armonizzazione tra famiglia e lavoro che siano capaci di assegnare alle imprese e alla pubblica amministrazione, nella veste di datore di lavoro, un ruolo attivo: favorendo scelte di part-time, agevolando la flessibilità, creando disponibilità di nidi aziendali e di altre strutture di supporto all’attività di cura. Il terzo pilastro si fonda sul favorire lo sviluppo di contratti di lavoro che associno ai tradizionali temi del trattamento economico e professionale quelli dell’offerta di servizi per i tempi di cura e di assistenza familiare. Infine, il quarto ha come riferimento un insieme di politiche per la casa che siano a misura di famiglia e in relazione al numero di figli: vi trovano spazio proposte che riguardano gli incentivi fiscali, la riduzione degli oneri di urbanizzazione, interventi sul fronte dei mutui e degli affitti sostenibili, spazi adeguati alle prospettive di crescita della famiglia, programmi per favorire la prossimità abitativa genitori/figli/nonni.È facile rendersi conto come la bassa fecondità che da lungo tempo contraddistingue il nostro Paese sia unicamente l’effetto, spesso indesiderato, di scelte condizionate da vincoli e costrizioni. Le stesse fonti statistiche che in questi anni certificano in 1,3 il numero di figli mediamente generati dalle coppie italiane non mancano di sottolineare come in termini di "numero medio ideale" il valore salga, per le stesse coppie, a poco più di due: a testimonianza di un divario tra "ciò che si vorrebbe" e "ciò che ci di adatta ad avere".
Ben vengano dunque le iniziative per «recuperare la cultura della fertilità come valore», giustamente proposte dal ministro Lorenzin per rispondere all’emergenza in atto, ma è evidente che affinché gli italiani possano, come da lei auspicato, tornare «a far figli» e (meglio) «a farli da giovani» occorre che il Paese riesca a dare alle coppie e ai giovani italiani anche i mezzi e le condizioni per compiere responsabilmente tali scelte. E a tal fine è indispensabile che i numerosi ostacoli lungo il cammino che porta alla famiglia e alla maternità/paternità vengano rimossi. Ma per far questo non basta la voce di un ministro "solista": bisogna attivare un "coro" formato da tutto il governo, pronto a "scongelare" il Piano nazionale sulla famiglia, aggiornandone se necessario alcuni contenuti, e soprattutto a dargli un seguito a livello operativo; almeno attraverso misure abbordabili anche oggi in tempo di crisi (e ce n’è più d’una).
La nascita di un figlio è, come si sa, un evento che cambia la vita. La sfida per la società (e la politica) è che questo cambiamento possa essere in meglio, sempre e a tutte le età.